La stessa Corte dei Conti chiede conto al Governo del “piano industriale” di Cinecittà, a fronte di 300 milioni di euro del “Recovery Plan” destinati ad un ancora misterioso rilancio degli studios.

In Italia, sempre più, in materia di “cultura”, sembra prevalere, nell’intervento della “mano pubblica”, la logica “economica” (finanziaria) su quella “sociale” (e civile): e naturale sembra essere divenuta l’attribuzione, di conseguenza, di centrale importanza ai cosiddetti “piani industriali”.

Non ci si stupisce quindi che, nella logica del “Recovery Plan”, sia la Corte dei Conti a chiedere al Governo su quale (misterioso) “piano industriale” sia stato basato l’annunciato grandioso rilancio degli “studios” di Cinecittà… Non ci stupisce, quindi, che il quotidiano confindustriale titoli oggi a piena pagina “Governance e piano industriale, le sfide della nuova stagione Rai”.

La deriva mercatista della mano pubblica nel sistema culturale italiano

Non approfondiremo in questa sede le ragioni di quella che abbiamo definito – anche su queste colonne – la “deriva mercatista” del sistema culturale (in verità, questa deriva si può applicare, in Italia, anche alle politiche della scuola o della sanità, ed altre ancora), ovvero il convincimento, sempre più diffuso (anche nelle ideologie che un tempo sarebbero state classificate come “di sinistra”) che sia importante, fondamentale, essenziale, “il mercato”.

Abbiamo criticato molte volte l’attuale titolare del Ministero della Cultura, Dario Franceschini, che, in occasione della sua prima nomina alla guida del dicastero un tempo denominato “Ministero per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo” (Mibact), sostenne che era orgoglioso di essere chiamato a guidare il “ministero economico” più importante del Paese. Era il febbraio del 2014 (ed allora il dicastero non aveva ancora incorporato il Turismo), e questa affermazione è stata ribadita negli anni successivi.

Riteniamo che una questione delicata e strategica qual è la cultura non debba essere affrontata in modo dominante con un approccio “economico”, o, peggio, “economicista”: nel corso degli ultimi decenni, si è passati da una visione che escludeva – e talvolta demonizzava – “il mercato” ad una visione che non soltanto comprende, giustamente, il mercato, ma finisce per assumerlo come bussola strategica.

Questa deriva (mercatista, appunto) è stata peraltro avviata, anni fa, da esecutivi di centro-sinistra, da Walter Veltroni a Giovanna Melandri, con continue iniezioni di logiche liberal-liberiste (i due aggettivi sono correlati ma non sono ovviamente sinonimi).

Se era giusto prendere in considerazione le dinamiche del mercato (il versante della domanda così come il versante dell’offerta), rispetto ad un intervento dirigista (e dall’ “alto”) della mano pubblica, non è stato saggio attribuire alla “economia della cultura” un peso maggiore rispetto a quella che era (e dovrebbe continuare ad essere) la “politica della cultura” (o “politica culturale” che dir si voglia).

Lo Stato italiano schiavo del mercato, anche nel sistema culturale?

Questa dinamica attraversa ormai gran parte dell’intervento pubblico dello Stato italiano nella cultura: dalla Rai che continua a guardare alla numerologia dell’Auditel come stella polare al titolare del Ministero della Cultura che è entusiasta se il numero dei visitatori nei musei cresce in modo significativo.

La dialettica tra “qualità” e “cultura” è uno dei dilemmi genetici del sistema culturale, ma è un dato di fatto che, negli ultimi anni soprattutto, i “numeri” vengano considerati l’unico strumento di analisi della realtà: numeri peraltro spesso privi di metodologie serie, privi di validazioni scientifiche…

Numerologie fantasiose, su “fatturati” e “forza-lavoro” e finanche “indotto” e – udite udite – “moltiplicatori”…

Più i numeri vengono sparati in alto, più il “policy maker” pubblico sembra essere confortato nelle sue decisioni. Come dire?! “è il mercato, baby”.

Incarna perfettamente questa sostanziale rinuncia al ruolo di “policy maker” uno strumento tanto decantato quanto poco realmente conosciuto, come il “tax credit” (applicato in Italia soprattutto al sistema cinematografico ed audiovisivo), ovvero un intervento della mano pubblica che finisce per seguire prevalentemente le dinamiche – giustappunto – di mercato. Allorquando, lo Stato forse dovrebbe, in talune occasioni, andare paradossalmente “contro” le logiche di mercato, nel sostegno della cultura e delle arti, per stimolare l’estensione di un autentico pluralismo espressivo e per far crescere la democrazia culturale.

Una formula magica, quasi salvifica, è proprio “piano industriale”: quando c’è un “piano industriale”, si presuppone vi sia stato un intervento tecnico-scientifico basato su luminosa ed incontrovertibile verità.

I “piani industriali” nelle mani degli oligopolisti della consulenza: E&Y, Pwc, Deloitte, Kpmg, Bcg…

Spesso però – e qui cade l’asino – la stessa pubblica amministrazione italiana mette in atto un’altra rinuncia: non riesce a elaborare questi documenti in proprio, e sembra indispensabile il ricorso alle multinazionali della consulenza. Multinazionali della consulenza che sono quasi sempre emanazioni, se non filiazioni, delle multinazionali specializzate nelle revisioni di bilancio. Si tratta di 4 oligopolisti: E&Y (già Ernst & Young), PricewaterhouseCoopers (Pwc), Deloitte & Touche, e Kpmg. Sullo scenario, ha un suo ruolo non indifferente anche un altro “player”, qual è Boston Consulting Group (alias Bcg).

Senza dimenticare un’altra consorella, defunta, quella Andersen (ex Arthur Andersen) fallita nel 2002 a seguito dello scandalo Enron. Va ricordato, per comprendere le dimensioni di queste multinazionali ed il loro coinvolgimento ai massimi livelli dell’economia e finanza mondiale, che nel gennaio del 2008, Andrew M. Cuomo, prima di insediarsi come Governatore dello Stato di New York, ancora nel suo ruolo di Procuratore Generale, intentò una causa contro Ernst&Young, per il suo presunto ruolo nel collasso di Lehman Brothers nel 2008, ovvero quel che è stato definito il “crack supremo” che ha determinato disastri nell’economia planetaria (di cui ancora tutti noi paghiamo le conseguenze). Secondo l’accusa, Ernst & Young avrebbe aiutato la banca di investimenti a fornire informazioni fuorvianti agli investitori sulle proprie condizioni finanziarie, a fronte di consulenze nell’ordine di circa 100 milioni di dollari: nell’aprile del 2015, la vicenda giudiziaria s’è chiusa, con una sorta di “transazione” risarcitoria nell’ordine di 10 milioni di dollari, una somma modesta a fronte dei 150 milioni di dollari di danni che lo Stato di New York aveva rivendicato…

Sono questi “scienziati” dell’economia e della finanza (che pure esercitano un impressionante e non proprio trasparente potere nel “governo del mondo” tout-court, essendo ormai dei veri e propri governi-ombra) ad elaborare spesso i “piani industriali” di soggetti pubblici come la stessa Rai o Cinecittà

Milioni di euro a Boston Consulting Group per il “piano industriale” Rai…

Ci limitiamo a ricordare che, a metà aprile 2019, l’Amministratore Delegato della Rai Fabrizio Salini ha apposto la sua firma su un contratto che aumentava da 1 milione ad 1,2 milioni di euro l’impegno economico della Rai per i “servizi di consulenza strategica per lo sviluppo e l’implementazione di progetti industriali del Gruppo Rai” affidati alla Boston Consulting Group srl (alias Bcg): si tratta di un + 200.000 euro, ovvero di una integrazione di quanto previsto dall’“accordo quadro” di consulenza strategica, che andava dal 24 settembre 2018 al 23 settembre 2020, che aveva come importo-base giustappunto 1 milione di euro… Non staremo qui a ricostruire la spesa complessiva, negli ultimi due anni, per il “piano industriale” di Viale Mazzini. Piano industriale che è andato a finire su un binario morto, soprattutto a causa (ma non soltanto a causa) della pandemia…

E già immaginiamo (temiamo) che il nuovo Consiglio di Amministrazione che andrà ad insediarsi entro fine giugno, sentirà verosimilmente l’esigenza di un novello “piano industriale”, da affidare – sulla base di un principio di… alternanza?! – ad una delle succitate multinazionali.

Come se Rai non avesse, all’interno del proprio management, professionalità specialistiche adeguate! Incredibile, ma vero.

Anche il “bilancio sociale” Rai (confuso con la “dnf”) in mano a Deloitte e Pwc

Anche quando un soggetto come Rai decide di avviare un percorso di sana autocoscienza per un proprio “bilancio sociale”, cosa accade? Che vengono coinvolte, ancora una volta, le succitate multinazionali. Rai ha deciso, qualche anno fa, di far confluire il “bilancio sociale” in un altro documento, previsto dalla normativa per le imprese di notevoli dimensioni, ovvero la “dichiarazione di carattere non finanziario” (detta anche “dnf”). Risultato?! Scrivevamo su queste colonne: “Peraltro, proprio per non farsi mancare niente, il “Bilancio Sociale + Dnf” affidato alla Deloitte, registra anche un superiore intervento della Pwc, che ha dovuto certificare l’avvenuta rispondenza della “Dnf” a quanto previsto dal decreto legislativo del n. 254 del 2016 (formalmente, si tratta di una relazione cosiddetta “esame limitato”, ovvero “limited assurance engagement”). Come dire?! Pwc certifica quel che Deloitte ha elaborato: certificazioni e revisioni… “ad abundatiam” (vedi “Key4biz” del 10 maggio 2019, “Tempi di bilanci in Rai, approvato quello di esercizio e quello sociale. Quello che non torna”).

Ha senso tutto questo? Sono dinamiche sane, per il governo del Paese?

Non va dimenticato che, peraltro, questi “piani industriali” restano chiusi a chiave nelle segrete stanze dei consigli di amministrazione delle società pubbliche. Lo stesso “piano industriale” della Rai non è mai stato reso di pubblico dominio, e la sua discussione ed approvazione è rimasta all’interno delle ovattate stanze del Settimo Piano di Viale Mazzini.

La Corte dei Conti: perplessità sui 300 milioni di euro per il rilancio di Cinecittà. Quali concreti benefici per il settore cinematografico? Ed il “piano industriale” qual è?

Segnaliamo quel che ha scritto la stessa Corte dei Conti, in occasione di una sua valutazione della prima bozza del “Recovery Plan”, rispetto ad uno degli interventi caratterizzanti l’azione del Governo in materia di cultura, ovvero il rilancio di Cinecittà: “è previsto un investimento pari a 300 milioni di euro nello sviluppo dell’industria cinematografica attraverso il potenziamento degli studi cinematografici di Cinecittà per migliorare il livello qualitativo e quantitativo dell’offerta produttiva e aumentare la capacità di attrazione delle grandi produzioni nazionali, europee e internazionali. Si intende rilanciare le attività della Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia mediante lo sviluppo di infrastrutture (“virtual production live set”) ad uso professionale e didattico tramite e-learning, nonché attraverso la digitalizzazione e la modernizzazione degli immobili e degli impianti. Questo intervento beneficia di fondi complementari per 150 milioni dai progetti Pon”.

Fin qui la descrizione. Qui il commento (critico): “sul progetto Cinecittà sarebbe necessario acquisire il relativo piano industriale degli interventi previsti (6 nuovi teatri di posa entro il 2026, recupero di 4 teatri di posa entro il 2026 e 3 infrastrutture tecnologiche innovative) e quali concreti benefici si prevede arrecheranno al settore cinematografico” (vedi il testo depositato l’8 febbraio 2021, in occasione dell’audizione informale dei rappresentanti della Corte dei Conti presso le Commissioni riunite Bilancio, Tesoro e Programmazione di Camera e Senato, e Commissione Politiche dell’Unione Europea del Senato, nell’ambito dell’esame della proposta di “Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza” alias “Pnrr”). Si noti l’espressione “si prevede arrecheranno”…

Se è la stessa Corte dei Conti a domandare al Governo di acquisire il “piano industriale” di Cinecittà (documento che – se esistente – permane segreto), per capire quali “concreti benefici” deriveranno (“se” deriveranno, ci permettiamo di aggiungere noi?!) dalla iniezione di 300 milioni di euro per il rilancio di Cinecittà, si ha conferma della debolezza delle basi sulle quali è stato impostato il “Recovery Plan”…

Il Ministro Franceschini ribadisce: Cinecittà, una “Hollywood europea” anche grazie a Cassa Depositi e Prestiti

Eppure lo stesso Ministro Dario Franceschini ha ribadito con convinzione (e finanche entusiasmo), in un webinar a porte chiuse organizzato da Intesa Sanpaolo ieri l’altro, intitolato “Il comparto cinematografico italiano nel post covid” (al quale hanno partecipato “decision maker” di livello come Paolo Del Brocco, Ad di Rai Cinema, e Stefano Ciullo, Director of Public Policy Italy Netflix, e Marco Azzani, Director Prime Video Italy, oltre che lo stesso neo Ad e Dg di Cinecittà Nicola Maccanico) l’idea di una “Hollywood europea”.

Il titolare del Mic ha sostenuto che questa “idea” gli è stata stimolata anche dalle proposte di acquisto di Cinecittà che gli sarebbero pervenute da importanti player dell’industria audiovisiva mondiale: a quel punto, si è domandato – e si è dato una risposta – “perché non siamo noi, come sistema-Paese, a rilanciare ed a investire negli studios di Cinecittà, magari cercando un partner industriale pubblico, qual è Cassa Depositi e Prestiti?”.

La decisione sarebbe stata codeterminata dalla disponibilità di Cdp ad investire in modo deciso nel progetto, così come dalla messa a disposizione di terreni di sua proprietà vicini a Via Tuscolana, nei quali si andrebbe a costruire nuovi “studios”…

Sarà interessante leggere il misterioso “piano industriale” di Cinecittà, per capire se la prospettiva tratteggiata dal Ministro è ben fondata.

Ed a quale… multinazionale della consulenza sarà stato affidato il “piano industriale” di Cinecittà?

“Valutazione di impatto” della legge cinema e audiovisivo, nuovamente affidata a Università Cattolica e Ptsclac: resterà documento semi-clandestino?!

Infine, è proprio di queste ore la notizia che la Direzione Generale per il Cinema e l’Audiovisivo (Dgca) del Ministero della Cultura ha ri-affidato al (costituendo) “raggruppamento temporaneo di imprese” (rti) tra Università Cattolica del Sacro Cuore e Ptsclas spa (almeno, questa volta, una società di consulenza… italiana!), per il terzo anno di seguito, la “valutazione di impatto” (anche in questo contesto – vedi supra – quasi esclusivamente economica) della legge cinema e audiovisivo, relativa all’anno 2020 (quella relativa all’anno 2019 è stata pubblicata soltanto due mesi fa). In questo caso, il principio di “rotazione” negli affidamenti degli appalti pubblici è stato ignorato, nonostante sia previsto dal Codice e da delibere dell’Anac: evidentemente il Ministero è proprio molto soddisfatto di questi consulenti…

Ci si augura che questa nuova edizione della consulenza (rispetto alla quale abbiamo segnalato non poche debolezze metodologiche) divenga finalmente oggetto di una pubblica discussione, a favore della comunità professionale, dato che, fino ad oggi, lo studio è stato reso noto in semi-clandestinità esclusivamente sul sito web del Ministero.

La valutazione di Cattolica e Ptsclass non è mai stata oggetto di alcuna attenzione giornalistica nel corso degli anni.

L’unica testata che ha dedicato attenzione alla “valutazione di impatto” è stata giustappunto “Key4biz”: incredibile, ma vero (vedi “Key4biz” del 10 marzo 2021, “Pubblicata la ‘valutazione d’impatto’ della legge cinema e audiovisivo 2019”). Eppure la relazione viene redatta per essere trasmessa al Parlamento, ma dell’ultima edizione nessuna traccia nei siti web di Camera dei Deputati e Senato della Repubblica: incredibile, ma vero. Un documento paradossalmente semi-segreto…

Documenti segreti, secretati, semi-clandestini, misteriosi, ignorati…

Tra documenti segreti, documenti secretati, documenti semi-clandestini, tra “piani industriali” misteriosi e “valutazioni di impatto” ignorate da tutti, si continua a governare il sistema culturale italiano…

Su tematiche ben più “corpose” dei 300 milioni di euro che il Governo ha deciso di destinare a Cinecittà, si segnala la lettura di quanto sta pubblicando in-progress la Fondazione Openpolis, di monitoraggio critico del “Next Generation Eu”: in particolare, si rimanda all’articolo di venerdì della scorsa settimana 7 maggio 2021, il cui titolo è emblematico, “Il governo ha cambiato il Pnrr e nasconde gli allegati di dettaglio Next generation Eu”. Scrive Openpolis, con dovizia di documentazione: “In base alle nostre ricostruzioni il governo avrebbe inviato alla commissione europea un testo diverso da quello presentato al parlamento la scorsa settimana. Tra le due versioni, oltre 400 milioni di euro avrebbero cambiato destinazione”.

E ciò basti… a conferma, peraltro, dei succitati dubbi sollevati qualche settimana fa dalla stessa Corte dei Conti

Siamo di fronte ad un “governo misterioso” del Paese.

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