“Destra” e “sinistra” nelle politiche culturali: la vera differenza dovrebbe essere nella strumentazione di governo. Come è possibile un “buon governo” dell’immaginario nazionale, se non si dispone di dataset adeguati e di analisi critiche che consentano di superare discrezionalità e nasometria, tra cinema e editoria e oltre?

Da molti anni andiamo sostenendo – nella nostra attività di ricercatori specializzati e di giornalisti di indagine – che il sistema culturale italiano ha bisogno di maggiore trasparenza e di migliore autocoscienza.

Questo deficit di conoscenza determina infatti il prevalere di discrezionalità estrema anche nelle scelte del “policy maker”.

Nella nebbia, ognuno può infatti operare come preferisce, tanto nessuno ha il quadro chiaro di quel che accade. 

Vale per “il privato”, vale per “il pubblico”: ma, nella seconda dimensione, la questione assume maggiore gravità e le responsabilità sono evidenti, perché si disperdono risorse e si vanifica il senso stesso di una “politica culturale”.

Che il decisore politico sia schierato “a sinistra” o “a destra” o “al centro” finisce paradossalmente per non essere granché rilevante, se continua a prevalere la discrezionalità e la nasometria, e se vince sempre e comunque la logica dell’“intuitu personae”.

Un esempio, tra i tanti possibili, delle italiche carenze di conoscenze?!

Da molto tempo, si lamenta “la crisi delle edicole” in Italia, ma nessuno segnala che non esistono analisi di scenario e studi di mercato che consentano di comprendere la profondità della crisi. E lasciamo perdere le analisi comparative internazionali.

In Italia, nessuno (nemmeno il Ministro della Cultura o il Sottosegretario alla Presidenza delegato all’Informazione ed all’Editoria) sa esattamente quante siano le edicole, come sia andata evolvendosi la loro moria e come è cresciuta la desertificazione culturale del nostro territorio. Abbiamo affrontato la questione anche su queste colonne: vedi “Key4biz” del 4 novembre 2022, “Se i cinematografi piangono, le edicole muoiono: ogni giorno ne chiudono 3”.

Dinamiche simili si riproducono – come abbiamo ben dimostrato anche su queste colonne, soprattutto negli ultimi mesi – rispetto a strumenti decantati senza che siano stati ben studiati: in primis, il mitico “tax credit” applicato al settore cinematografico e audiovisivo.

Prevale il “no data”.

Ci rendiamo conto che il Ministero della Cultura sovvenziona ormai – grazie ai 750 milioni di euro del fondo per il cinema e l’audiovisivo – centinaia e centinaia di film e della gran parte di essi non si riesce a sapere… nulla?! 

Per certo, non vengono distribuiti nelle sale cinematografiche, non vengono offerti dalle piattaforme, non vengono trasmessi in televisione…

Tanti cineasti, pochi spettatori. Tanti libri, pochi lettori

Tutto questo è normale? È sano?!

E come commentare le dichiarazioni entusiaste del presidente dell’associazione degli esercenti cinematografiche (Anec), Mario Lorini, che si esalta del gran successo del fenomeno “Barbie”, e nulla dice della quota di mercato dei film “made in Italy”, crollata ai minimi storici?! 

Ed alcuni giornalisti cavalcano l’onda di questo entusiasmo eccessivo e vedono anche loro il bicchiere “mezzo pieno”: sabato scorso, Arianna Finos sul quotidiano “la Repubblica” titolava “Tutti in sala. Così è rinato il cinema d’estate”. Da non crederci.

Per fortuna, non siamo in “beata” solitudine, nel segnalare – coerentemente con il nome della rubrica che l’Istituto italiano per l’Industria Culturale IsICult cura per il quotidiano online “Key4biz” – che “il principe è nudo”.

Come ha scritto ironicamente Federico Pontiggia il 3 agosto sulle colonne di “Cinematografo.it”, in un intervento intitolato “Sciagurati noi”: “quando lo stolto guarda ‘Barbie’, il saggio indica la quota del cinema italiano (4,9 %)… Luglio col bene che ti voglio lo sai non finirà, che cosa? Ovvio, il diniego strapaesano a produrre un’offerta estiva. Un problema tanto annoso quanto gravoso, cui la campagna ‘Cinema Revolution’ del Mic, dunque film italiani ed europei a 3,50 euro, non ha posto alcun rimedio. Anzi, forse lascerà strascichi perniciosi in tema di deprezzamento del prodotto autoctono e tout court’. Per tacere di ineludibili esternalità negative: se il pubblico preferisce Barbie’ e compagnia americana a prezzo pieno, quali conseguenze sul cinema d’essai, sull’autorialità italiana e continentale, e quale sprone a una sempre maggiore eventizzazione?”.

E nessuno si domanda poi se l’offerta di cinema gratuito nelle arene (offerta paradossalmente sovvenzionata dallo Stato) determina una azione di disturbo rispetto alla fruizione di cinema in sala naturalmente “a pagamento”.

Chiude lo storico cinema milanese Odeon, ma il Governo non interviene

E poi qualcuno si stupisce e l’associazione degli autori Anac (guidata da Francesco Ranieri Martinotti) protesta sommessamente per la chiusura dell’iconico cinematografo Odeon a Milano: l’Ansa, il 30 luglio, ha titolato “a Milano la fine di un’epoca”. Si legge in un comunicato della storica Associazione Nazionale degli Autori Cinematografici diramato venerdì scorso (5 agosto), lamentando la chiusura della storica (aperta nel 1929) sala cinematografica Odeon (multisala da 2.500 posti nel cuore di Milano), avvenuta pochi giorni fa a Milano, che gli autori “esprimono la più assoluta contrarietà per l’assenza di reazioni (fatta salva qualche rara eccezione) da parte del settore e delle Istituzioni. È inaccettabile che Milano, la città dove si sono concentrati nel dopo-Brexit i maggiori investimenti di capitali rilanciando imprenditoria, commercio, edilizia e finanza, rimanga indifferente alla perdita di un luogo di cultura, arte e spettacolo, e sia disposta a rinunciare ad uno tra i più rappresentativi monumenti dell’arte Liberty italiana, vedendolo trasformare in un ulteriore centro commerciale a due passi dal Duomo”. E l’Anac propone addirittura finanche una “tassa di scopo” da imporre alle piattaforme: “oltre a fondi Ue, ulteriori risorse per il salvataggio dell’Odeon, che ha visto sfilare sul red carpet star internazionali, come Meryl Streep, Timothée Chalamet, Steven Spielberg, Tom Hanks, dovrebbero essere stanziate costituendo un fondo per il sostegno alle sale storiche in difficoltà, alimentato con risorse provenienti da una tassa di scopo a cui assoggettare le piattaforme. Gli stravolgimenti determinati al sistema distributivo e di esercizio da parte dei nuovi player richiederebbero, infatti, forme compensative rivolte agli schermi che hanno rappresentato il ‘900”. In difesa di questo cinematografo è intervenuto anche il Sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi, peraltro fuoriuscendo dal perimetro delle sue deleghe (la questione è infatti di competenza della sua collega Lucia Borgonzoni, il cui parere in materia non è giunto).

Di grazia, ma non basterebbe allocare meglio i 750 milioni di euro del fondo cinema e audiovisivo della Legge Franceschini, se qualcuno si decidesse ad analizzare in modo serio ed accurato l’impatto reale delle norme e delle regolamentazioni in essere?!

Non deve essere – diciamolo – l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom) ad improvvisamente segnalare, come avvenuto qualche settimana fa, alla Direzione Cinema e Audiovisivo (Dgca) del Ministero della Cultura – nella economia della annunciata riforma del “tax credit” – che il sostegno pubblico nazionale al cinema e audiovisivo viene assorbito in gran parte da società che sono formalmente italiane (ed “indipendenti”), ma che sono emanazioni di gruppi mediali stranieri (il caso Fremantle controllato dalla lussemburghese-tedesca Rtl / Bertelsmann è il più sintomatico). Esempio tardivo eppur senza dubbio valido di possibile superamento delle carenze di informazione…

Questo complessivo sconfortante deficit di conoscenza attraversa tutti i settori del sistema culturale: tutte le industrie culturali e creative.

Un altro esempio?! 

Il 30 per cento dei libri editi in Italia non vende una copia (una). Tra tutti i libri usciti nel 2022, nemmeno 35mila (su 87mila titoli) hanno raggiunto le 10 copie vendute

Il 29 giugno, è stata presentata una ricerca che voleva enfatizzare come le librerie indipendenti siano (possano essere) un presidio culturale, anche nei centri storici. 

Dalla fotografia scattata dal centro studi Nomisma (su incarico di Confesercenti Emilia Romagna) con la ricerca “Il ruolo e il posizionamento delle librerie indipendenti. Uno sguardo su Italia ed Emilia-Romagna”, sono emersi alcuni dati impressionanti, anche se il report dello studio non è stato reso di pubblico dominio nella sua completezza (perché questa ritentività?): è diminuito il numero delle case editrici (fonte Istat), dalle 5.491 nel 2012 alle 4.623 del 2021… ma la produzione libraria, invece, ha registrato una continua crescita: dopo il boom del 2019, con 86.475 opere pubblicate, nel corso del 2021 la produzione è cresciuta ulteriormente con un incremento del 4 % rispetto al 2019… 

Nel complesso, però, il numero di lettori in Italia è calato negli ultimi 11 anni passando dal 46,8 % nel 2010 al 40,8 % nel 2021…

Come ha segnalato anche il quotidiano “la Repubblica” il 30 giugno, commentando la ricerca Nomisma, in un articolo intitolato “Editoria, il 30 per cento dei libri non vende nemmeno una copia”, aumentano gli scrittori, ma diminuiscono i lettori. 

Si tratta di stime frutto di una indagine sul campo, focalizzata sulle librerie indipendenti dell’Emilia Romagna, ma riteniamo che il dato sia sintomatico anche a livello nazionale (d’altronde, anche su questo fronte, “no data” o comunque dati estemporanei…). In sostanza, in Italia, il 30 per cento dei libri pubblicati non vende 1 copia (una!), o al massimo ne vende 1. 

Tra tutti i libri usciti nel 2022, nemmeno 35mila hanno raggiunto le 10 copie vendute.

Come dire?! Un fenomeno che ha punti di contatto con quello della diminuzione degli spettatori cinematografici.

Cresce “l’offerta” (qui intesa come quantità di “titoli”, siano essi film o libri), diminuisce “la domanda”.

Tanti cineasti (e produttori), pochi spettatori. Tanti libri, pochi lettori.

E chi sta pensando – in termini di politica culturale – al “cultural divide” tra Nord e Sud?

E che dire della desertificazione culturale di buona parte del territorio nazionale?! E del “cultural divide” tra Nord e Sud?! 

Questa preoccupante dinamica è emersa in modo evidente nell’economia della consulenza che IsICult ha prestato nel 2022 alla Società Italiana degli Autori e Editori (Siae) per la rimodulazione dello storico “Annuario dello Spettacolo”, divenuto – nella sua edizione n° 86 – il 1° “Rapporto Siae sullo Spettacolo e lo Sport nel sistema culturale italiano”, pubblicato da Siae il 17 novembre 2022. Ne scriveva anche Andrea Biondi sul quotidiano confindustriale “Il Sole 24 Ore” in un articolo del 5 dicembre 2022, ben intitolato “Il cultural divide che bussa alle porte del Ministero”. Nelle regioni meridionali, vive il 34 % della popolazione nazionale, ma gli spettatori (cinema + teatro + musica + ecc.) sono complessivamente solo il 20 %. Al Nord, il 46 % della popolazione “vale” il 58 % di spettatori. L’asimmetria risulta ancora più spiccata sulla spesa per “spettacolo”: quasi 2 euro su 3 (il 63 %) sono spesi al Nord, contro il 20 % del Centro e il 17 % del Sud…

Siae peraltro dispone di un dataset enorme (di impianto censuario, anni-luce lontano dai limiti delle indagini a campione), che è stato finora purtroppo esplorato soltanto in parte, e che potrebbe invece costituire la base di un lavoro approfondito di fotografia e radiografia di alcuni dei settori più importanti del sistema culturale nazionale.

Il Ministero della Cultura riflette attentamente su questi dati critici, per quanto frammentari, o si lascia sedurre di volta in volta dalle numerologie (spesso ad effetto, talvolta fantasiose) di coloro che vedono un Paese in grandioso (e magari anche armonioso) sviluppo, anche nel sistema dell’immaginario nazionale?! 

Non è possibile (ben) governare le politiche culturali, se si continua a dar retta al Presidente dell’Anica Francesco Rutelli, che dichiara che il cinema italiano è “sano”, oppure al Presidente di Symbola Ermete Realacci, che, come recita lo slogan della sua fondazione, esalta l’Italia delle tante “qualità” ma omette di segnalare le tante criticità del sistema…

Che un po’ di sano pessimismo della ragione si accompagni finalmente all’ottimismo della volontà. 

[ Nota: questo articolo è stato redatto senza avvalersi di strumenti di “intelligenza artificiale. ]

(*) Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) e curatore della rubrica IsICult “ilprincipenudo” per “Key4biz”.

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