L’8 marzo Giornata della Donna, tra il bel progetto “Io non odio” della Regione Lazio ed il complessivo deficit Rai nella cura dell’immagine del femminile.

Questa mattina, lunedì 8 marzo, abbiamo assistito ad un’interessante kermesse promossa dalla Regione Lazio per sensibilizzare gli studenti delle scuole medie superiori in relazione alla promozione del rispetto dell’immagine femminile, approfittando dell’ inevitabilmente rituale giornata della “Festa internazionale della Donna” dell’8 marzo: l’iniziativa rientrante nel progetto “Io non odio”, promosso dall’Assessorato alle Pari Opportunità ed al Turismo (insieme all’Assessorato Formazione, Diritto allo Studio, Università e Ricerca). Il progetto “Io non odio” parte dalla convinzione che la prevenzione vada iniziata presto: l’iniziativa si pone come percorso di sensibilizzazione sui temi del contrasto della violenza maschile contro le donne e degli stereotipi di genere, della promozione della parità di genere e delle pari opportunità.

Dedichiamo spazio all’iniziativa sia perché meritevole di attenzione in sé, sia perché stimola una riflessione di ambito generale sul “senso” di simili attività.

La mattinata si è svolta nel nuovo “Spazio Rossellini”, in via della Vasca Navale (zona Viale Marconi), un’accogliente “location” gestita dell’Associazione Teatrale tra i Comuni del Lazio – Atcl, circa 800 metri quadrati, quasi 450 posti a sedere, spazio che – tra l’altro ospita la rubrica “Luce Social Club” in onda su Sky Arte (programma di intrattenimento culturale curato da Gianni Canova, Martina Riva e Max De Carolis, prodotto da Erma Pictures e Atcl). L’Atcl è un ente para-pubblico della Regione Lazio, che sostiene l’attività teatrale sull’intero territorio regionale.

Sono state presentate, con la conduzione della giornalista Rosa Polacco, le testimonianze di una decina di giovani e giovanissime donne (tutte “under 35”) che hanno cercato di rappresentare un panorama significativo dell’attuale impegno “femminil / femminista”.

Questo il parterre, in parte in presenza ed in parte via web: giovani scrittrici, artiste, attiviste, atlete, imprenditrici, “influencer”, attrici e cantautrici.

Ogni partecipante si è dedicata ad una sorta di “parola-chiave”: Valeria Cagnina (sulla parola “Dreamer”), Martina Caironi (“Reinventarsi”), Diana Gini (“Inclusione”), Jennifer Guerra (“8 marzo”), Caterina Guzzanti (“Responsabilità”), Alice Pasquini (“Presenza”), Giulia Perona (“Rossetto”), Esperance Hakuzwimana Ripanti (“Rappresentazione”), Chiara Sfregola (“Pregiudizio”) e Joan Thiele (“Libertà”). 

Complimenti a chi effettuato il florilegio, perché si è trattato veramente di una bella eletta schiera.

L’evento è stato trasmesso in streaming sul profilo Facebook della Regione Lazio.

La più anziana delle intervenienti è stata la sempre simpatica Caterina Guzzanti (classe 1976), la quale ha sostenuto la necessità di mettere in atto una opportuna pulizia semantica, a partire dall’eliminazione dal vocabolario della parola “femminicidio”.

Tutti gli interventi delle giovani donne hanno evidenziato una sensibilità culturale difficilmente immaginabile dieci o vent’anni fa. In argomento, va detto che, seppure non abbiamo condiviso il contestato monologo di Barbara Palombelli – autoreferenziale e narcisistico – nella serata di venerdì scorso del “Festival di Sanremo”, è oggettivamente un dato di fatto che la generazione delle “prime femministe” ha comunque stimolato nella società italiana un salto di qualità nella coscienza collettiva.

Un florilegio di giovani donne femministe

Ci ha colpito in particolare Chiara Sfregola (classe 1987), autrice di due romanzi di successo (“Signorina” e “Camera Single”), ritenuta una delle voci più acute che la letteratura italiana nell’ambito “Lgbtqi+”. Nata in Puglia e trapiantata a Roma, è stata una delle penne di “Lezpop.it” (ritenutala bibbia” del mondo lesbico italiano); la sua rubrica è stata trasformata in un romanzo “Camera Single” (Leggereditore, 2016), una specie di “The L Word” ambientato nella Capitale; da ultimo, ha dato alle stampe “Signorina” (Fandango, 2020). Sfregola ha raccontato in modo particolarmente convincente la difficoltà che una donna deve superare nell’ambiente di lavoro per riaffermare le proprie qualità professionali, una sorta di test quotidiano nel quale le donne sono costrette a “rivalidarsi” continuamente, per evitare che il “pregiudizio” divenga “giudicato” (ricorda en passant che Sfregola lavora come “story editor” e delegata alla produzione di Cattleya).

Giulia Perona (classe 1990) ha raccontato il proprio progetto di sensibilizzazione culturale “Senza rossetto” podcast su femminismo società e letteratura, che cura assieme a Giulia Cuter: il “naming” dell’iniziativa ha preso spunto simbolicamente da un episodio della storia d’Italia, dato che, in occasione della prima possibilità di voto delle donne alle elezioni politiche veniva consigliato di non presentarsi al seggio con il rossetto perché, dato che la scheda andava chiusa umettandola con la lingua, si correva il rischio di annullamento della stessa…

La scrittrice nera Esperance Hakuzwimana Ripanti (classe 1991), autrice di “E poi basta. Manifesto di una donna nera” (People, 2019), nata in Ruanda durante gli anni del genocidio (ha visto morire tutta la sua famiglia d’origine), ha affermato la necessità di superare anzitutto dentro sé stesse la paura di rivendicare il pieno esercizio dei propri diritti, promuovendo una “rappresentazione” in positivo del proprio sé, per superare paure e pregiudizi.

Impressionante anche ascoltare Valeria Cagnina (classe 2001), co-fondatrice (a 16 anni!) e “mentor” di OFpassiON, azienda di robotica educativa, che ha raccontato come la sua attività di giovane imprenditrice fosse ritenuta dal preside incompatibile col suo percorso scolastico, al punto tale che ha abbandonata quell’istituto per sostenere l’esame di maturità come privatista. Incredibile, ma vero!

L’iniziativa odierna è stata promossa da Giovanna Pugliese, Assessora al Turismo e alle Pari Opportunità della Regione Lazio che ha sostenuto: “abbiamo portato sul palco del Rossellini la forza delle donne, l’energia, la passione, la tenacia, la determinazione, l’intraprendenza e la sensibilità. Un appuntamento unico, arricchito dalle esperienze e dalle testimonianze autentiche che ciascuna delle nostre ospiti proverà a trasmettere alle ragazze e ai ragazzi delle Scuole Superiori di Roma e del Lazio. Un manifesto contro l’odio, contro la violenza e contro tutte le discriminazioni”.

La kermesse è stata trasmessa via web, e già questa modalità provoca un quesito sul rischio che iniziative commendevoli non vadano a beneficiare della diffusione che pure meriterebbero: infatti un progetto come questo poteva per esempio riempire, se impostato con tempistiche diverse, una buona ora di trasmissione televisiva su un’emittente nazionale o rientrare esemplificativamente tra i progetti della sempre più attiva (anche a livello di co-produttore di contenuti) Rai per il Sociale.

Il caso in questione è infatti sintomatico del sempre latente rischio di dispersione di energie e risorse, da parte della “mano pubblica” italiana.

La questione si inserisce anche in un dibattito mai adeguatamente sviluppato in Italia su “come comunicano” le Regioni e le altre amministrazioni locali.

Come è noto, è sostanzialmente preclusa per legge la possibilità di una Regione, per esempio, di gestire una propria rete televisiva, allorquando soltanto questo medium consentirebbe un’adeguata diffusione comunicazionale delle iniziative istituzionali. Nell’interesse della collettività, e non soltanto di chi governa l’istituzione.

È pur vero che il rischio di strumentalizzazione politico-propagandistica sarebbe sempre latente (si pensi ad una emittente televisiva diretta dal Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca!!!), ma è altresì evidente che non svolge un’adeguata funzione supplente il mercato dell’emittenza televisiva commerciale locale, anche quando informa delle attività delle istituzioni regionali e locali. E si stenda un velo di pietoso silenzio sul flusso miserabile di risorse che lo Stato centrale assegna alle tv e radio locali (anche per rilanciare giustappunto le informazioni istituzionali), che a malapena consente loro la sopravvivenza. E pietoso silenzio anche sulla perdurante assoluta sotto-utilizzazione delle sedi regionali della Rai.

Eppure la questione della “comunicazione” mediale delle Pubbliche Amministrazioni dovrebbe essere affrontata finalmente in modo serio, organico, strategico: potrebbe essere una delle iniziative del Ministro Renato Brunetta, nell’economia del ricco piatto del “Recovery Plan”?!

Rai: perdurante deficit di una cultura editoriale sensibile al femminile

L’iniziativa odierna della Regione Lazio può stimolare anche una riflessione più ampia su quanto ancora manchi una diffusa cultura di sensibilità rispetto alla tematica del femminile: questo deficit riguarda anzitutto la Rai, data la sua “mission” di servizio pubblico radiotelevisivo.

Anche oggi l’Ufficio stampa di viale Mazzini enfatizza le iniziative celebrative della Giornata dell’8 marzo, ma il problema di fondo è rappresentato dalla incapacità di affrontare a muso duro il trattamento globale dell’immagine femminile a 360 gradi nel complesso dell’offerta editoriale del servizio radiotelevisivo pubblico. 

Dichiara oggi Rai, col solito orgoglio aziendale: “l’8 marzo è la data in cui tutto il mondo festeggia la Giornata Internazionale della donna, un appuntamento per ricordare le conquiste sociali e politiche ottenute nel corso della storia, ma anche tenere alta l’attenzione su discriminazioni e violenze. La Rai – impegnata in un processo di rinnovamento per l’equilibrio di genere e Main Media Partner nel 2021 di Women 20, l’engagement group del G20 specializzato su parità di genere ed empowerment femminile – celebra la ricorrenza con un’ampia offerta su reti, testate, e sul web”. Ahinoi: questi riferimenti a testi sacri delle istituzioni internazionali sono spesso più retorici che fattuali. “Per tutta la settimana – continua l’Ufficio Stampa di Viale Mazzini – le reti del Servizio Pubblico ospitano la campagna di Raccolta Fondi “#MaipiùInvisibili”, a cura dall’Associazione We World, finalizzata a contrastare la violenza sulle donne, iniziativa sostenuta da Rai per il Sociale”.

E si conclude con una chicca, uno spot della Presidenza del Consiglio dei Ministri: come dire?! Una tantum, una volta l’anno o quasi, si cerca di ri-sensibilizzare: “inoltre, da sabato 27 febbraio a lunedì 8 marzo è in onda su tutti i canali lo spot istituzionale “La prima donna”, prodotto dal Dipartimento per le Pari Opportunità e il Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Cinque donne che rappresentano altrettanti valori – forza, resilienza, libertà, uguaglianza e fantasia – sono, invece, protagoniste delle cinque “pillole” monografiche, prodotte da Direzione Creativa, che accompagneranno tutta la programmazione Rai, fino all’8 marzo”.

E questa sera alle 21:15 su Rai Storia un’opera dedicata ad Emma Carelli: grande soprano, diva assoluta del teatro d’opera di inizio Novecento, grande interprete della “Tosca”, acclamata nei teatri lirici d’Italia, Europa e Sudamerica, stimata da Caruso, Toscanini, D’Annunzio, ma sostanzialmente esclusa dalla società dello spettacolo e degli uomini. Nella Giornata internazionale della donna, Emma Carelli che – nella ricostruzione ha il volto di Licia Maglietta – è la protagonista del film documentario “La prima donna” di Tony Saccucci, prodotto da Istituto Luce-Cinecittà in collaborazione con Teatro dell’Opera di Roma, in onda lunedì 8 marzo 2021 alle 21.15 su Rai Storia per il ciclo “Italiani”. Perché su Rai Storia e non su Rai 1?!

Bene, comunque, certamente bene.

Ma non basta.

Un po’ poco, peraltro, osservare che questa sera in prima serata, sulle tre reti generaliste, c’è soltanto, “in materia”, la messa in onda su Rai2 del film “Colette” diretto da Wash Westmoreland, sulla famosa scrittrice francese (non ci sembra rientri esattamente a pieno titolo “Il Castello di Vetro” di Destin Daniel Crettonsu, adattamento delle memorie di Jeannette Walls, giornalista cresciuta senza radici e con un padre alcolizzato, su Rai3). Quasi che la tematica dell’8 marzo debba essere relegata nelle fasce meno pregiate del palinsesto…

Lo strano caso delle 3 fiction Rai che raccontano di violenze non avvenute: un paradosso

Una conferma dei deficit e delle contraddizioni di Viale Mazzini è data dalla sana polemica scaturita a partire da tre fiction Rai in cui tre donne dichiaravano, mentendo, di essere state violentate da compagni o ex. Tre diverse fiction hanno infatti paradossalmente raccontato storie di violenze “non avvenute”: negli ultimi giorni, Viale Mazzini è stata giustamente molto criticata per aver proposto opere che, a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, hanno mostrato delle storie di finti stupri, inventati cioè dalle presunte vittime che li avevano denunciati!

Il curioso tempismo con cui sono state trasmesse le fiction ha provocato le proteste di attiviste e associazioni, che hanno accusato la Rai di scarsa attenzione e sensibilità nella rappresentazione delle violenze sessuali, che in Italia sono già poco denunciate. Sacrosante proteste.

In una puntata della fiction “Mina Settembre” (regia di Tiziana Aristarco, produzione Iif) andata in onda il 7 febbraio ed in un episodio di “Che Dio ci aiuti 6” (regia Francesco Vicario, produzione Lux Vide) del 25 febbraio, entrambi trasmessi su Rai 1, si narrava di due donne che avevano denunciato uno stupro che non era veramente accaduto… E viene raccontata una storia simile anche nella miniserie “Le indagini di Lolita Lobosco” (regia di Luca Miniero, produzione BiBi), tratta dagli omonimi romanzi di Gabriella Genisi, in onda sempre su Rai 1: la prima puntata, trasmessa il 21 febbraio, parlava sia di un “finto stupro” sia di femminicidio (la giovane donna che aveva denunciato la violenza, infatti, viene poi uccisa dal fidanzato che aveva tradito)…

Tra i primi ad accusare, giustamente, la Rai di inadeguatezza nella rappresentazione delle violenze sessuali, c’è Æstetica Sovietica, sito web che si occupa di questioni di genere. Tra coloro che hanno denunciato la dinamica, anche il sempre vigile deputato Michele Anzaldi (Italia Viva), che ha giustamente sostenuto che Rai dovrebbe “farsi promotrice di un’ampia programmazione nei talk show, nell’informazione, nella fiction e rivolgersi a tutte le età affrontando il dramma delle violenze sulle donne”.

In Italia, il fenomeno della violenza sessuale è in crescita, e la (mala) gestione della pandemia l’ha aggravato

Si ricordi che, secondo i dati Istat, il 21 per cento delle donne tra i 16 e i 70 anni, cioè 4 milioni e 520mila persone, ha subito una qualche forma di violenza sessuale; di queste, 1 milione e 517mila hanno subito violenze nelle forme più gravi, ovvero stupro o tentato stupro. Si stima che però soltanto una minima parte di queste persone denunci le violenze subite, tra il 6 e il 12 per cento. E si ricordi anche che la pandemia, e la sua (mala) gestione repressiva in termini psico-sociali, ha determinato un incremento dei casi di violenza domestica: tra il marzo e l’ottobre del 2020, le chiamate al numero di pubblica emergenza “1522 “per le segnalazioni di violenza sono aumentate del 107 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e le richieste di aiuto via chat sono triplicate (da 829 a 3.347)…

Manca ancora, nella “cultura editoriale” dei decisori del prodotto e del palinsesto Rai (soprattutto per quanto riguarda informazione e “fiction”), una convinta visione di un “femminile” libero ed emancipato, una diffusa anzi pervasiva narrazione (informativa e “fictional”) che vada ben oltre l’immagine tradizionale della donna.

Basti osservare il modo indegno con il quale vengono affrontati dai telegiornali Rai i casi di cronaca che riguardano gli omicidi di genere: un approccio occasionale, spesso con tinte morbose, una cronaca quasi sempre sganciata da una lettura critica dell’evento criminale… Quasi mai il delitto viene contestualizzato, viene “spiegato” nelle sue dimensioni psico-sociali: rarissimi sono gli interventi di professionisti della psiche. Ci si limita ad una narrazione ad effetto, che finisce per paradossalmente… “normalizzare” il patologico!

Tutti i lodevoli tentativi messi in atto dalla Rai (e ce ne sono non pochi, va riconosciuto) finiscono per apparire sganciati da una complessiva “politica di genere”, da quello che dovrebbe essere un vero “spirito informatore”: si ricordi anche la quota minoritaria di donne nella dirigenza apicale di Viale Mazzini, o il caso della breve durata – poco più di un anno – in carica dell’unica donna direttrice di Rai Uno (Teresa De Santis) nel corso della storia del servizio pubblico radiotelevisivo…

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