La richiesta del Sottosegretario alla Cultura Mazzi e la reazione del Presidente della Siae Nastasi. Finalmente emerge una questione delicata e strategica per l’immaginario delle nuove generazioni, la deriva dei linguaggi del rap e l’esigenza di una qualche forma di controllo (come per la pornografia).

La notizia non ha registrato una ricaduta mediatica significativa, anzi si può sostenere che sia stata proprio trascurata dai media, ma merita essere rilanciata: ospite lunedì 20 novembre di un panel in occasione della “Milano Music Week” promossa dalla Società Italiana degli Autori e Editori (Siae), Gianmarco Mazzi, uno dei tre Sottosegretari alla Cultura (gli altri due sono Lucia Borgonzoni e Vittorio Sgarbi), ha declamato provocatoriamente alcuni versi di due dei rapper più controversi del momento Shiva e Simba La Rue, sostenendo che “questi testi vanno rivisti e controllati”, perché “avvelenano intere generazioni”.

Il Sottosegretario ha perfettamente ragione.

Gianmarco Mazzi ha estrapolato alcuni passaggi da due brani, “Syrup” di Shiva e “Cagoule” di Simba La Rue: si tratta di brani nei cui testi vi sono riferimenti sessuali espliciti. Il Sottosegretario ha ricordato che il pubblico a cui sono rivolte queste canzoni è composto prevalentemente da prevalentemente gli adolescenti. Queste le chicche citate dal Sottosegretario: “lei ce lo succhia senza le mani, ha un superpotere / Sto fumando schegge, è caduto un grammo dentro al posacenere” (Shiva); “e se avessi avuto una tipa / era solo per tenerle i pezzi in figa” (Simba La Rue). Senza dimenticare che i rapper in questione peraltro sono detenuti (Shiva, in attesa di processo), per aver commesso reati non banali (tentato omicidio, ecc.). In particolare, in questi giorni ha suscitato attenzione mediale la sentenza emessa dal Tribunale di Milano, che ha scosso le fondamenta del panorama rap italiano, dichiarando colpevoli i trapper italo-senegalesi Baby Gang e Simba La Rue per rissa, rapina, lesioni e possesso illegale di armi da fuoco. Il verdetto ha provocato un’onda di discussione, sollevando quesiti su giustizia e responsabilità nell’industria musicale. Baby Gang è stato condannato a 5 anni e 2 mesi, mentre Simba La Rue ha ricevuto una pena di 6 anni e 4 mesi (pene superiori alle richieste della Procura). Per chi non conosce questi artisti (sic), ci limitiamo a segnalare il videoclip di Baby Gang, “Bentley”, featuring (sic) Simba La Rue e J Lord: un esempio perfetto di queste sotto-culture (clicca qui, su YouTube, 1,7 milioni di visualizzazioni in tre settimane…).

Il Sottosegretario, che ha la delega per lo spettacolo dal vivo e la musica, è andato oltre, auspicando che simili personaggi vengano banditi dai palcoscenici e che l’industria fonografica smetta di produrli.

Giancarlo Mazzi ha sostenuto che “questi testi appartengono a un genere che non vorrei crocifiggere, ma vanno rivisti e controllati, perché sono inni alla violenza contro le donne… Questa deriva è pericolosa e molto allarmante… Sono pronto a battermi per questo settore, ma come faccio con questi testi che girano? Dietro questi testi ci sono Sony MusicUniversal Music e Warner Music: qualcuno dice che questi testi sono un riscatto, ma si può permettere un riscatto di qualcuno ai danni di una generazione, quella che ascolta queste canzoni? Questa è cultura? Di fronte a questi testi, cosa possiamo fare? (…) So quanto la comunità della musica sappia essere solidale, ma forse il tempo dei simbolismi è finito: bisogna alzarsi con indignazione per far ragionare chi danneggia non solo la comunità della musica, ma tutta la comunità. Sono per la totale libertà di espressione, ma io sono anche per la responsabilità sociale. Contesto che le aziende sostengano questo tipo di musica, perché le aziende hanno un codice etico, che hanno inventato proprio loro, le multinazionali americane. Se lo impongono ai loro lavoratori, perché non lo impongono anche fuori? Non sopporto che si faccia business su queste cosa: la tolleranza in merito dovrebbe finire”.

Alcuni rappresentanti del settore hanno evocato lo spettro della censura, ovvero la censura di Stato…

Ieri è intervenuto in modo diplomatico e dialogico il Presidente della Siae Salvatore Nastasi, che ha assicurato un’imminente azione della Siae: la Società, che rappresenta oltre 100mila autori italiani (la spina dorsale delle industrie culturali e creative nazionali) si impegna a “avviare un dialogo costruttivo tra tutti i soggetti dell’industria musicale italiana sul tema dei testi violenti, razzisti e omofobi, convinta che sia urgente trovare un giusto compromesso tra l’intangibile libertà di espressione, come sancito dall’articolo 21 della Costituzione Italiana, e la necessità di veicolare, soprattutto ai più giovani, messaggi positivi attraverso l’arte e la cultura”.

È certamente apprezzabile che un esponente del Governo abbia finalmente avuto il coraggio di affrontare questo tema delicato e rimosso dai più, un tema non meno importante rispetto a quello del libero accesso dei minori alla pornografia, a contenuti inappropriati ed alla enorme quantità di spazzatura audiovisiva che alimenta il web: ci siamo concentrati proprio ieri su questi temi (si veda “Key4biz” del 21 novembre 2022, “Parental control, quando la montagna partorisce il topolino”).

Il Sottosegretario ha rilanciato una presa di posizione della nota attrice Cristiana Capotondi, la quale, ospite della trasmissione “In altre parole” (condotta da Massimo Gramellini, in onda su La7) ha denunciato a chiare lettere la deriva in atto: “ma l’avete ascoltata la musica trap, che ascoltano gli adolescenti? Come viene trattata la donna nella musica trap? Di che ci sorprendiamo se un giovane di 22 anni considera una donna come un oggetto”.

Cristina Capotondi ha perfettamente ragione, ma il problema non è soltanto l’“immagine della donna” che emerge da gran parte del flusso musicale rap e trap: la questione riguarda l’intero universo valoriale di questa musica, che è prevalentemente basato sul consumismo, sull’esibizionismo di oggetti “status symbol” (si pensi soltanto al Rolex), su una visione mercificata dell’intera esistenza, con una continua enfasi sul piacere corporeo (sessuale o alimentato da sostanze psicotrope).

Da anni, la musica rap in Italia offre soprattutto disvalori, ovvero visioni esistenziali funzionali alle logiche del capitalismo digitale: è lo strumento più pervasivo di una visione materialista e consumista dell’esistenza. Dominio della Merce sull’Umano.

Chi cura per l’IsICult – Istituto italiano per l’Industria Culturale questa rubrica “ilprincipenudo” può farsi vanto (triste vanto, ahinoi…) di aver segnalato questo problema, già anni, anche su queste colonne: si veda il nostro intervento del 2018, ben sintetizzato dal titolo, “ilprincipenudo. Anastasio vince X Factor 2018, qualche perplessità sociologica sulla canzone e sui rapper italici” (su “Key4biz” del 14 dicembre 2018).

In questi ultimi anni, l’ondata di immondizia musicale (la citazione è di Franco Battiato) è cresciuta, ed ha contribuito al risveglio di una industria fonografica che era in crisi: gran parte di questa “rinascita” dell’industria musicale italiana è infatti dovuta al successo del rap e della trap.

Ci segnalava qualche tempo fa il Presidente della Federazione Industria Musicale Italiana (Fimi) Enzo Mazza che nel 2022 si registra un 100 % di album italiani nella “Top 10” ed è all’83 % la quota di repertorio italiano sulla “Top 100” venduto nello stesso anno (vedi “Key4biz” del 27 ottobre 2023, “Tra cinema e Rai, c’è baruffa nell’aria”).

I dati di mercato confermano un’impressione diffusa: i brani rap sono divenuti popolari non soltanto tra gli adolescenti ma anche tra i pre-adolescenti, che li imparano a memoria, e talvolta senza nemmeno comprendere il senso (volgarissimo) di alcuni passaggi.

Scrivevamo nel succitato articolo su “Key4biz” del dicembre 2018… Una lettura forse superficiale dei testi di “rapper” come Fedez, J-Ax, Sfera Ebbasta, Baby K (la più famosa nell’ambito femminile) produce impressioni contrastanti: ad un diffuso “ribellismo” di tipo genericamente “anti-sistema”, si associa una visione prevalentemente ludico-gaudente-consumista (oscillante tra il nichilismo e l’edonismo) dell’esistenza, con la proposizione di valori non propriamente rivoluzionari (una sorta di conformista “anti-conformismo”), come l’evocazione di una “bella vita” (divertimento, lusso, eros… il godimento qui ed ora, “del doman non v’è certezza…”) in versione post-moderna e “digital”, con un frequente ammiccamento alle sostanze psicotrope… In argomento, sintetizza in modo efficace il titolo di un bell’articolo di Lorenzo Maria Alvaro, nell’edizione in edicola dell’eccellente mensile “Vita” (diretto da Stefano Arduini): “Droga, individualismo e zero pensieri. Viaggio tra i parolieri della musica trap”. Il mensile del “terzo settore” dedica l’edizione del dicembre 2018 ad un reportage inquietante sull’uso delle sostanze psicoattive in Italia, una patologia sociale che cresce continuamente: la copertina è intitolata “Droga. Blackout Italia”. E la musica rap/trap sembra essere un volano dell’uso di queste sostanze, che finiscono per essere considerate “normali”, allorquando così non è. Si tratta di una sorta di incredibile “normalizzazione” di una patologia strisciante che dovrebbe essere invece oggetto di grande sensibilità ed attenzione critica, da parte della scuola e… del servizio pubblico radiotelevisivo!

Ponevamo una serie di domande, che mantengono tutte la loro validità…

(…) Queste canzoni, in particolare il “rap” e la sua variante “trap”, rappresentano la “colonna sonora” dell’immaginario giovanile: dovrebbero essere oggetto di studi approfonditi, soprattutto in ambito sociologico e mediologico, mentre l’accademia sembra ignorarli (fatte salve rarissime eccezioni).

In effetti, quali valori veicolano queste canzoni?!

Quale “visione del mondo”?!

Queste musiche provocano conseguenze nell’atteggiamento di crescente distacco dei giovani rispetto all’impegno politico?

Esiste una correlazione tra questa musica ed il crescente astensionismo elettorale?!

Dopo un paio di anni, tornavamo sul tema per il “caso Junior Cally”, in occasione della edizione n° 70 del Festival di Sanremo (vedi “Key4biz” del 6 febbraio 2020, “Impazza Sanremo, ma la Rai resta allo sbando”). Scrivevamo, puntando il dito sulla deriva dello stesso servizio pubblico radiotelevisivo: alla ribalta di Sanremo, è emerso il caso di Junior Cally, che si associa – in negativo – a quello di Achille Lauro e – in positivo – di Paolo Palumbo: i primi due esponenti di una “cultura” musicale interprete di valori esistenziali opinabili, il secondo coraggioso cantante che sfida la malattia (è affetto da quattro anni dalla Sla) con la musica. In questo mix di trash e nobile, il Festival di Sanremo vorrebbe affermarsi come “specchio” della società italiana. Ma mettere sullo stesso piano, alla fin fine, “miseria e nobiltà” (la buonanima di Totò ci perdoni) determina una sorta di appiattimento valoriale complessivo, l’assenza di una “bussola” culturale, di una qualche forma di orientamento, che riteniamo possa (debba) essere la funzione del servizio pubblico mediale. Non basta “contrapporre” la cultura alta e la cultura bassa (usiamo queste categorie convenzionalmente), la trasgressione del rapper sguaiato e la tradizione storica del pop dei Ricchi e Poveri, l’ammiccamento ai giovani ed al contempo ai vecchi, in un frullatore di post-moderno e nostalgia che finisce per essere culturalmente a-valoriale. Il caso del rapper Junior Cally è sintomatico di come Rai non stia riuscendo ad affrontare in modo approfondito quel che accade nel Paese: al di là dello specifico “incidente” (Cally è autore di brani con testi… non esattamente “politically correct”), e dell’infinito dibattito sui rischi di “censura” sempre latenti, nel nostro Paese il “rap” è senza dubbio un fenomeno sociale che va ben oltre la specifica dimensione musicale-artistica.

Sempre più questi rapper – i cui brani vengono offerti a rotazione sulla quasi totalità delle radio commerciali (anche Radio Rai, sebbene, per fortuna, in misura minore) – vengono apprezzati dai più giovani, non soltanto adolescenti ma anche fanciulli: si pongono come “trasgressori”, e certamente ragazzi e bambini sono inevitabilmente attratti dalla “diversità” (indipendentemente dalla qualità della stessa) e dal “ribellismo” (è in natura, nella psiche umana). Questa musica si pone oggi come colonna sonora dell’immaginario giovanile.

E rispetto al “caso Cally”, sostenevamo: sulla vicenda dell’osceno Junior Cally, Rai avrebbe dovuto provocare un dibattito ampio e plurale, dedicare non 1 ma 10 puntate di un “talk show” a questi fenomeni (sub)culturali. Come ha sostenuto Red Ronnie (che di musica ne capisce), “uno che inneggia al femminicidio e allo stupro non può andare a Sanremo, equivale a sdoganarlo” (si rimanda al commento video di Ronnie, per capire di cosa stiamo trattando).

Tornavamo sulla questione anche in occasione del “Concertone” del 1° maggio dell’anno scorso, nel nostro intervento su “Key4biz” del 2 maggio 2022, “Il Concertone del 1° maggio non fa il pieno di audience. La formula va rivista?”): scrivevamo: negli ultimi anni, peraltro, così come ieri, l’ondata dei rapper italiani è divenuta impetuosa ed ha conquistato la scena anche del Concertone: con tutto quel che ne consegue, rispetto ad un genere musicale che non è stato in Italia ancora oggetto di un’adeguata analisi sociologica e culturologica… Si segnala una delle rarissime esplorazioni, su questo tema: lo stimolante saggio curato da Silvestro Lecce e Federica Bertin, “Generazione trap. Nuova musica per nuovi adolescenti”, pubblicato pochi mesi fa Meltemi

In sostanza, qualcuno c’è stato, negli anni scorsi, che ha segnalato la degenerazione in corso ed anche l’accademia ha finalmente iniziato ad interessarsi della questione.

È comunque doveroso segnalare che non tutto il “rap” è assimilabile a spazzatura musicale: basti citare un pioniere come Frankie Hi-Nrg e, tra gli attuali, Ghali… Uno dei pochi testi sulla storia del “rap” nel nostro Paese è rappresentato da Paola Zukar, “Rap. Una storia italiana”, edito nel 2016 e in nuova edizione, ampliata e aggiornata nel 2021, per i tipi di Baldini+Castoldi (Zukar è soprannominata “la signora del rap italiano”).

Voci fuori dal coro. Assenza delle istituzioni

L’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, l’Autorità Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza, il Consiglio Nazionale degli Utenti ed il Comitato Media e Minori si sono mai interessati in modo significativo di questi fenomeni degenerativi del sistema mediale/culturale nazionale?!

La risposta è netta. No.

Gli interventi di Agcom sono stati rarissimi: dalla memoria emerge la multa di 125mila euro alla trasmissione radiofonica “Lo Zoo di 105”, nell’ottobre 2021, per uso di espressioni volgari e denigratorie rivolte in particolar modo contro donne e omosessuali”. Questo il motivo che ha spinto allora la Commissione Servizi e Prodotti (Csp)dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazionia sanzionare con la multa (Delibera n. 183/21/Csp)la società Radio Studio 105 S.p.a. L’emittente tentò di giustificarsi, sostenendo che si trattava di “un esempio non isolato di comicità grossolana imperniata sull’uso iperbolico di espressioni grezze, capaci di suscitare il riso”. La Commissaria relatrice Elisa Giomi (che una sociologa dei media), ribatté: “è fuori luogo parlare di uso iperbolico di espressioni grezze o di mero elemento sonoro perché il registro umoristico, in queste circostanze, è un’aggravante”…

E che dire della modesta reprimenda (nessuna sanzione, ma soltanto l’obbligo di trasmettere un comunicato di “autocritica”!) manifestata dal Comitato Media e Minori nei confronti della Rai, allorquando trasmise in fascia protetta un episodio inquietante della serie statunitense “9-1-1”?! Sulla questione, si veda “Key4biz” del 28 gennaio 2022, “Rai trasmette in fascia protetta un telefilm raccapricciante: nessuno interviene” e del 31 gennaio 2022, “Tutela dei minori nei media italiani, dalla tv al web: Stato assente batta un colpo”, ed anche Marco Zonetti su “Vigilanza Tv” del 14 luglio 2022, “Sanzione a Rai2 per contenuti violenti. Del Grosso: “paghino i dirigenti Rai non i cittadini””…

Si tratta di interventi sporadici. Scrivevamo: anche se viene attivata una qualche “sanzione” (vedi supra…), non si traduce che in un lieve solletico verso i “poteri forti” del sistema mediale italiano, siano essi broadcaster o piattaforme.

Alcune reazioni rispetto alle ipotesi di “censura”: Enzo MazzaMarta Blumi Tripodi, Claudio Cabona… Ed il Codacons chiede alle emittenti a Siae e a YouTube di boicottare

Soltanto il qualificato quotidiano online specializzato sulla musica, “Rockol” (diretto da Giampiero Di Carlo e Franco Zanetti), ha dedicato in questi giorni attenzione accurata alla questione. Il Presidente della Fimi Enzo Mazza ha sostenuto: “questo discorso è già stato fatto in America con il punk, censurare delle canzoni o degli artisti rende immediatamente quei testi e quelle voci ancora più ascoltate e supportate” (si ricordi Voltaire: “è la caratteristica delle censure più rigide quella di dare credibilità alle opinioni che attacca”). Ma il punto, per me, sorge ancora prima dell’inutilità di un blocco di sistema, è proprio alla radice: il rap e in generale la musica non possono essere soggetti a censura, di nessun tipo. Perché questo presupporrebbe che l’arte debba allinearsi a una morale, quando l’arte, in realtà, ha tutto il sacrosanto diritto anche di mettere in discussione, per raccontarsi e raccontare, i valori su cui si basa la nostra società. È proprio da questi cortocircuiti che sorge una profonda consapevolezza culturale. Un sistema che si mette in discussione, anche attraverso l’arte, cresce e matura. “Rivendico il diritto e il piacere di essere scandalizzato”, amava ripetere Pier Paolo Pasolini, uno dei più grandi pensatori italiani del ‘900, che ha subito la mannaia della censura”. Rispondendo in diretta al Sottosegretario, Mazza ha anche sostenuto: “cerchiamo di individuare un tavolo permanente di confronto per affrontare questo problema: oggi non ci sono più gatekeeper, i rapper possono andare in classifica anche senza essere sotto contratto con una casa discografica”.

Nell’edizione di ieri di “Rockol” è intervenuta Marta Blumi Tripodi, in un articolo intitolato “Censurare il rap” (è intervenuta come “donna, mamma e esperta di rap”, è curatrice tra l’altro dell’edizione italiano di un testo di riferimento qual è “Il rap anno per anno” di Shea Serrano, edito da Mondadori), sostenendo che “ancora una volta mi trovo a dover ribadire che il rap in sé non sarebbe maschilista. Il rap se la prende con tutto e tutti: maschi, femmine, etero, gay, magri, grassi, bassi, alti, bianchi, neri. In nome dell’invettiva verbale e per amor di punchline, direbbe tutto e il contrario di tutto, ma il pilastro fondamentale della cultura hip hop è sempre stato il rispetto, quindi bisognerebbe sempre distinguere le convinzioni dei singoli dalle loro eventuali battute a effetto”. Marta Blumi Tripodi sposta l’asse del discorso e la butta sul sociologico: “a volte si esagera e si travalica il limite del buongusto o del lecito, e questo non lo nega nessuno, ma la violenza contro le donne è sempre frutto della società, e mai di un genere musicale che semmai la fotografa (anche se certo, bisognerebbe distinguere anche la musica dal musicista, perché alcuni musicisti sono sì violenti). Peraltro, i dati relativi alla violenza di genere non sono certo aumentati proporzionalmente al successo del rap in classifica: difficile, quindi, ritenerlo una concausa nei femminicidi o negli altri crimini ai danni delle donne”. Questa “correlazione” socio-statistica dovrebbe essere comunque approfondita, e peraltro – ribadiamo – la degenerazione valoriale provocata dal rap non riguarda soltanto il problema drammatico della violenza sulle donne. E conclude: “insomma: se è un dato di fatto che la censura non è mai stata una buona idea, nel caso specifico mi appare ancora più insensata. C’è ben altro da fare, prima di arrivare a decidere a chi permettere di fare musica e a chi no”.

Questa la tesi di Claudio Cabona (giornalista e saggista): “la musica, in particolare il rap, ha senz’altro un sottobosco sessista e violento, il cui argine non si pone con la censura, ma con la cultura, la trasmissione di valori e l’insegnamento. I testi violenti e sessisti citati dall’onorevole non hanno certo la consapevolezza dei nomi degli artisti prima citati, ma restituiscono, purtroppo, un pezzo di realtà. Che non si vuole vedere, ma esiste. Qualche giorno fa, in una bella intervista, Don Claudio Burgio ha detto una frase significativa: “La realtà non fa schifo perché c’è Baby Gang, ma c’è Baby Gang perché la realtà fa schifo”. Poi prosegue: “Per me condannare le canzoni non ha molto senso, quello che bisognerebbe fare è lavorare prima, alle radici del problema. È troppo facile prendersela con il testo di un brano. Che cosa facciamo noi per evitare che alcuni giovani finiscano in giri negativi? Questo è il punto”. Il rap, da sempre, è un genere-spugna che si nutre, senza alcun filtro, di quello che ci circonda, nel bene e nel male. Piaccia o no, ci restituisce, come uno schiaffo o come una carezza, frutti fuoriusciti da quello che è stato seminato. È sul terreno e sui semi, come spiega Don Claudio, che bisogna lavorare” (si rimanda anche all’intervista a Don Claudio Burgio, “Don Claudio Burgio racconta Baby Gang. Intervista al presidente della comunità Kayrós su rap, educazione e disagio giovanile”, su “Rockol” del 15 novembre 2023).

Il Presidente del Codacons Carlo Rienzi ha rivolto un appello a tutte le radio italiane, a YouTube e alla Siae affinché boicottino i brani di rapper e trapper che contengono frasi violente o aggressive verso le donne: “ogni giorno le emittenti radiofoniche nazionali trasmettono brani di artisti molto in voga tra i giovani, infarciti di frasi con riferimenti espliciti contro le donne, in grado di alimentare odio e violenza e incentivare aggressioni e gesti estremi. Canzoni che vengono regolarmente registrate alla Siae e pubblicate anche su piattaforme internazionali come YouTube. Basta anche pagare i diritti a questi artisti che incitano alla violenza”.

Conclusivamente, è evidente che nessuno può invocare processi di censura, ma è indispensabile avviare processi di sensibilizzazione nei processi produttivi (e quindi anche nelle politiche di offerta): riteniamo che una qualche responsabilità da parte del sistema industriale della musica italiana possa essere identificata, così come senza dubbio vi è grande responsabilità anche da parte della Rai, che non assolve adeguatamente alla sua funzione di servizio pubblico mediale che dovrebbe stimolare sensibilizzazione culturale, promuovendo meglio la buona musica (anche la “musica ribelle”, sia ben chiaro, ma quella buona, non quella asservita al culto della merce), a fronte del trash dilagante. Rai continua a seguire le tendenze di mercato, in modo acritico: come definire altrimenti la messa in onda in questi giorni dello speciale “L’anno del Rap, l’anno di Napoli”, una produzione Red Bull Media House con la collaborazione di Rai Contenuti Digitali e Transmediali, offerta in esclusiva sulla piattaforma RaiPlay da venerdì 17 novembre e trasmessa domenica 19 novembre anche su Rai2 alle 22:45?! Approccio critico a questi linguaggi? Zero. Servizio pubblico assente.

Un tavolo di confronto tra imprenditori musicali, rappresentanti degli autori, rappresentanti delle emittenti radiofoniche e televisive e delle piattaforme, esperti di sociologia e psicologia e mediologia, e certamente di una qualche istituzione (Agcom, Ministero della Cultura, Ministero dell’Istruzione e del Merito…) potrebbe essere il primo passo per cercare strumenti di contenimento di un fenomeno che è grave e profondo. Ed è urgente una ricerca nazionale di ampio respiro, che analizzi questi fenomeni in modo finalmente serio ed interdisciplinare, anzitutto dal punto di vista psicologico e sociologico.

In Italia, si sta infatti assistendo, sostanzialmente inerti, ad una deriva mercatista della società ed al continuo processo di inquinamento delle coscienze giovanili.

Dilaga pornografia: una pornografia che va oltre quella tradizionale della sfera sessuale. Prevale una visione sempre più mercificata della vita.

Si tratta veramente di “armi di distrazione” di massa al servizio del (peggior) capitalismo.

La triade Valditara e Roccella e Sangiuliano presenta iniziative contro la violenza sulle donne. Progetto del Ministero dell’Istruzione e del Merito dotato di un budget di 15 milioni di euro

Un tema correlato… Affollata conferenza stampa nella Sala Koch di Palazzo Madama, questa mattina, per la presentazione di una campagna di sensibilizzazione nelle scuole contro la violenza sulle donne, promossa dal Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, denominata “Educare alle Relazioni”, e per la presentazione di un “protocollo d’intesa” con la Ministra per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità, Eugenia Roccella e con il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano.

Si intende avviare una grande mobilitazione scolastica, ha sostenuto Valditara: “per la prima volta in Italia, si fa un esperimento di questo tipo, per la prima volta si intende affrontare il tema del maschilismo, del machismo e della violenza psicologica e fisica sulle donne. Il progetto si sviluppa su più piani, con l’educazione civica dall’elementari alle superiori, c’è l’invito a far entrare la cultura del rispetto in tutti gli insegnamenti. Poi c’è il progetto specifico nelle scuole superiori e si articola con gruppi di discussione, con il coinvolgimento degli studenti in prima persona”. Il progetto prende avvio – ha precisato Valditara – “non dai recenti fatti di cronaca”, ma ha preso le mosse dagli eventi successi la scorsa estate, lo stupro di Palermo e gli stupri di Caivano, oltre che “dalla mia ferma volontà che occorre dire basta in modo drastico a quei residui di cultura maschilista e machista che ancora inquinano il nostro Paese. È inaccettabile che la donna debba subire quotidianamente vessazioni, umiliazioni e violenze”.

Verranno attivati laboratori e lezioni con docenti ed esperti, con una dotazione budgetaria di 15 milioni di euro. Il Ministro ha sottolineato il coinvolgimento attivo dell’Ordine nazionale degli Psicologici, così come delle associazioni rappresentative dei genitori…

L’iniziativa è senza dubbio valida.

Valditara ha precisato che “questo progetto si intitola ‘Educare alle Relazioni’ e affonda le sue radici nel progetto ‘Educare al Rispetto’ che risale al 2015. Di quel progetto è una evoluzione molto significativa”. Il Ministro si riferisce alle “Linee Guida Nazionali” intitolate “Educare al rispetto: per la parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione”, elaborate nel 2015 a seguito della Legge n. 107 del 2015 (art. 1 comma 16), la cosiddetta “Buona Scuola” tanto voluta da Matteo Renzi. La legge del 2015 prevede che “il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori”. Va segnalato che si è trattato di belle intenzioni che non si sono concretizzate in interventi incisivi rispetto all’insieme delle scuole italiane. Spesso queste iniziative hanno carattere occasione, e quindi effimero. Questi temi dovrebbero essere inseriti in modo organico nel curriculum degli studenti, nei cosiddetti “pof”, i piani dell’offerta formativa.

Emergono perplessità su due fattori: le iniziative verranno sviluppate in orario extra-curriculare, perché – ha sostenuto il Ministro – non si può limitare la già esistente materia di “educazione civica”; il budget di 15 milioni di euro è senza dubbio significativo, ma si tratta oggettivamente di una dotazione inadeguata rispetto al target delle oltre 8mila scuole italiane.

In ogni caso, Valditara ha sostenuto che, se l’iniziativa registrerà un buon successo, il Ministero potrà ragionare sulla elevazione della “educazione alle relazioni” a “materia curriculare”, nella prossima edizione del progetto. Sarà opportuno assegnare al progetto una dotazione budgetaria adeguata.

Il Ministro ha anche precisato che il progetto “Educare alle Relazioni” non ha Alessandro Amadori come coordinatore, a fronte di polemiche domande poste da alcuni giornalisti: sul consigliere per la comunicazione del Ministro, accusato di sessismo, si è infatti scatenata nelle ultime ore una bufera per il suo libro del 2020, “La guerra dei sessi. Piccolo saggio sulla cattiveria di genere”, scritto insieme a Cinzia Corvaglia. Critiche e interpellanze parlamentari per le parole contenute nel volume. Un florilegio: “il diavolo è anche donna” e “parlando di male e di cattiveria, dovremmo concentrarci solamente sugli uomini? Che dire delle donne? Sono anch’esse cattive? La nostra risposta è “sì”, cioè che anche le donne sanno essere cattive, più di quanto pensiamo”…

La Ministra Eugenia Roccella ha rimarcato l’opportunità, definita d’intesa con il collega Gennaro Sangiuliano, di stimolare gli studenti ad ideare e produrre video e cortometraggi sul tema della lotta contro la violenza sulle donne, opere audiovisive che potranno essere portate anche sulla vetrina del Festival del Cinema di Venezia (il direttore Alberto Barbera ha già manifestato la propria adesione).

Il Ministro della Cultura ha sostenuto che la “cultura è un antidoto formidabile contro ogni forma di violenza”. Il titolare del Collegio Romano ha anche ricordato che, nei processi ministeriali di selezione delle opere cinematografiche e audiovisive, verrà assegnato un punteggio premiale alle proposte che manifestano sensibilità riguardo al tema del rispetto delle donne…

Stranamente, nessuno dei tre ministri – sullo specifico tema “audiovisivo” – ha ricordato che esiste già da anni il progetto “Cips – Cinema e Immagini per la Scuola” (sviluppato dal 2018 al 2023), promosso d’intesa tra Mic e Mim, che sostiene la promozione della cultura cinematografica e audiovisiva nelle scuole: nell’economia del progetto, sono stati prodotti anche audiovisivi che affrontano le tematiche sensibili come il “bullismo” e la “parità di genere” ed i “sentimenti” (si rimanda al “Catalogo delle opere audiovisive” del “Piano Nazionale Cinema e Immagini per la Scuola”, presentato in occasione delle “Giornate del Cinema per la Scuola 2023”, tenutesi a Palermo dal 16 al 18 ottobre 2023).

In effetti, potrebbe essere saggio ragionare su una integrazione delle iniziative di “alfabetizzazione cine-audiovisiva” con le iniziative di “educazione all’affettività”, nel quadro di attività di formazione di cittadini digitalmente e culturalmente evoluti: tutte tematiche (audiovisivo-digitale e affettività-sessualità) che dovrebbero finalmente entrare in modo stabile nei percorsi curriculari degli studenti, dalle scuole elementari alle scuole superiori di secondo grado.

Servono interventi strutturali e sistemici, non azioni occasionali ed effimere. Quello annunciato oggi appare come un primo passo, certamente apprezzabile ma ancora troppo timido.

[ Nota: questo articolo è stato redatto senza avvalersi di strumenti di “intelligenza artificiale. ]

(*) Angelo Zaccone Teodosi è Presidente dell’Istituto italiano per l’Industria Culturale – IsICult (www.isicult.it) e curatore della rubrica IsICult “ilprincipenudo” per “Key4biz”.

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