Impedito l’accesso al Fondo per le “associazioni culturali”: una contraddizione in termini, se si vuole rafforzare il tessuto “imprenditoriale” del sistema della cultura, delle arti, della creatività in Italia.

L’Italia è un Paese di contraddizioni intime e profonde e diffuse, e forse, alla fin fine, non ci si dovrebbe stupire di nulla: resta però sconcertante che un Ministero che vuole stimolare lo sviluppo delle imprese culturali e creative come il Ministero dello Sviluppo Economico (intervenendo in parallelo all’azione del Ministero della Cultura) possa commettere errori marchiani, come nel caso del neo-nato “Fondo per le Imprese Creative”, la cui “finestra” si aprirà martedì 5 luglio. 

Si tratta di 40 milioni di euro, lodevole iniziativa cui abbiamo dedicato – tra i primi e tra i pochi – grande attenzione anche sulle colonne di questa rubrica “ilprincipenudo” (ragionamenti eterodossi di politica culturale e economia mediale) curata da IsICult sul quotidiano online “Key4biz”, dedicato alla digital economy ed alla cultura del futuro: si rimanda a “Key4biz” del 3 giugno 2022, “Pubblicato il bando Mise da 40 milioni per il Fondo per le Imprese Culturali e Creative ed imminente quello del Mic da 115 milioni”.  

Abbiamo già segnalato – più volte – come in Italia esista un grande tessuto di soggetti che rientrano nella tipologia giuridica delle “associazioni culturali”: secondo le stime dell’Istat si tratta di circa 70mila enti, che danno lavoro a poco meno di 1 milione di persone (considerando soltanto i dipendenti)… Questi soggetti intervengono, con variegate modalità, in varie aree del sistema culturale: dal teatro alla musica, dal cinema alla danza, dai beni culturali alle arti… Su questi temi, vedi, da ultimo, “Key4biz” del 17 giugno 2022, “Cultura, saltato il 2 x mille: a bocca asciutta oltre 3mila associazioni”.

Spesso queste “associazioni culturali” svolgono anche attività di impresa, anche se statutariamente non hanno finalità lucrative (la loro prevalente attività è infatti istituzionale, al servizio della collettività): rientrano infatti nel ricco universo del “non profit”, che in Italia sta vivendo un saggio tentativo di regolamentazione, anche fiscale-tributaria, grazie alla norma che ha cercato di rendere più razionale l’atteggiamento dello Stato nei confronti del settore. Si tratta del “Codice del Terzo Settore”, ovvero del Decreto Legislativo n. 117/2017, che è uno dei pilastri della cosiddetta “Riforma del Terzo Settore” e rappresenta la raccolta organica di norme che riguardano queste attività. Nella sua economia, è stato istituito anche un “Registro nazionale”, denominato Registro Unico del Terzo Settore(“Runts”), che in qualche modo si va ad affiancare al Registro delle Imprese, consentendo peraltro una pubblicità finora ignota rispetto a centinaia di migliaia di enti (basti pensare all’obbligo di rendere pubblico il bilancio annuale, dinamica cui fino ad oggi sfuggivano anche fondazioni che muovono milioni e milioni di euro…). L’attuazione del Registro procede a rilento, ma procede…

Nel “Runts”, vengono accolti enti del Terzo Settore come le organizzazioni di volontariato (Odv), le associazioni di promozione sociale (Aps), le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus), ma il Legislatore non ha previsto una sezione specifica per le “associazioni culturali”, che si trovano ancora oggi in un limbo. Si rimanda ancora a “Key4biz”, ovvero al nostro intervento del 12 agosto 2021, “Le associazioni culturali in un limbo amministrativo. E si rinnovano anomale assegnazioni delle risorse pubbliche”.

Come è noto, in questi mesi – grazie ad un intervento nella Legge di Bilancio e grazie ad azioni che derivano dal “Recovery Plan” – il sistema culturale italiano sta per ricevere una significativa iniezione di risorse aggiuntive, rispetto a quelle storiche (basti ricordare i 750 milioni di euro del Fondo per il Cinema e l’Audiovisivo, ed 400 e più milioni del Fondo Unico dello Spettacolo…).

Per la prima, si interviene rispetto alle cosiddette “imprese culturali e creative”: dapprima il Ministero dello Sviluppo Economico, giustappunto con il “Fondo Imprese Creative”, che ha visto il regolamento di attuazione pubblicato dal Mise poche settimane fa (il 30 maggio 2022) ed ha affidato ad Invitalia la gestione del Fondo stesso; entro pochi giorni, lo stesso Ministero della Cultura, con un primo intervento per 115 milioni di euro, a fronte di 155 annunciati. Su questo secondo intervento, si rimanda a “Key4biz” del 6 maggio 2022, “Pnrr, 155 milioni di euro per sostenere le ‘micro’ e ‘piccole imprese’ culturali e creative italiane”. 

Va segnalato che, in occasione della presentazione del bando Mic, sia la Sottosegretaria delegata, la leghista Lucia Borgonzoni, sia il Direttore Generale Creatività Contemporanea (Dgcc) Onofrio Cutaia hanno enfatizzato che una sana interpretazione dello spirito delle leggi avrebbe determinato che, nei bandi imminenti (sono attesi entro fine giugno), non venissero posti “paletti” formali o scremature di tassonomia giuridica particolari: i bandi per le imprese culturali saranno aperti a tutti i soggetti che sono attivi nel sistema culturale, che siano imprese con finalità commerciali o associazioni culturali o altri soggetti del “non profit”. 

Si tratta di una decisione lungimirante e condivisibile, giustappunto perché il sistema culturale si caratterizza per una grande varietà e ricchezza di soggettività, con le più varie forme giuridiche.

Questa apertura mentale da parte del Mic non si riscontra nelle decisioni assunte dal Mise ovvero da Invitalia: il “Fondo Imprese Creative” prevede come criterio essenziale per partecipare lo status di “impresa creativa” (e questa definizione è abbastanza, ampia, anche grazie ad una quantità di “codici Ateco” piuttosto estesa), ma anche quello di impresa “iscritta al Registro Imprese”.

Se non si dispone di questo simpatico numerino, la piattaforma web che Invitalia ha impostato (attiva da lunedì 20 giugno) non consente di procedere nell’istanza. Incredibile, ma vero.

E qui casca l’asino: Invitalia non sa che in Italia è possibile “fare impresa” senza necessariamente essere iscritti al Registro Imprese?!

E qui casca l’asino. 

In effetti, sfugge evidentemente ai gestori del Fondo Imprese Creative, ovvero ad Invitalia, che nel nostro Paese è possibile “fare impresa” senza necessariamente essere iscritti al Registro Imprese!

Considerando il ruolo, le dimensioni, la ricchezza, le professionalità che caratterizzano un gigante pubblico come Invitalia questa interpretazione è surreale: sostanzialmente restrittivarepressiva, allorquando, in materia di imprese del settore culturale è necessario attrezzarsi in modo flessibile e dinamico.

Ignora forse Invitalia che le normative europee e la prevalente giurisprudenza italiana non obbligano soggetti come le “associazioni culturali” ed altri enti del Terzo Settore ad iscriversi al Registro delle Imprese per poter svolgere attività di “impresa”?!

La nozione di “Pmi” (piccola media impresa), ai sensi della normativa comunitaria, così come espressamente indicato nel Regolamento Ce n. 800/2008, comprende anche gli enti senza fini di lucro: l’art. 2, pt. 7 di tale Regolamento, infatti, stabilisce che, per “piccole e medie imprese” o “Pmi”, si intendono le “imprese che soddisfano i criteri di cui all’allegato I”, che, a sua volta, considera come “impresa”: “ogni entità, indipendentemente dalla forma giuridica rivestita, che eserciti un’attività economica. In particolare, sono considerate tali le entità che esercitano un’attività artigianale o altre attività a titolo individuale o familiare, le società di persone o le associazioni che esercitano un’attività economica”. 

È “impresa” qualsiasi entità a prescindere dalla forma giuridica rivestita

Si sottolinea che lo stesso Regolamento Ce n. 880/2008, al cons. 53, per coordinare più efficacemente le diverse normative comunitarie in tema di “aiuti di Stato”, compie un rinvio ad una più generale definizione di “Pmi” contenuta nella Raccomandazione Ce 6 maggio 2003. In questo atto, la Commissione ha definito la nozione di “Pmi” anche alla luce degli Artt. 48, 81 e 82 del Trattato, e, in coerenza con la giurisprudenza della Corte di giustizia, facendo riferimento, ancora una volta, a “qualsiasi entità, a prescindere dalla forma giuridica rivestita, che svolga un’attività economica (…)”, tra cui rientrano anche “le associazioni che svolgono regolarmente un’attività economica”. 

Se il Trattato, infatti, non ha definito la nozione di impresa, la Corte ha ripetutamente dichiarato che va ricompreso in tale nozione qualsiasi ente che eserciti un’attività economica, a prescindere dal suo “status” giuridico e dalle sue modalità di finanziamento (sentenze 23 aprile 1991, causa C-41/90, Höfner e Elser, Racc. pag. I-1979, punto 21, e 16 marzo 2004, cause riunite C-264/01, C-306/01, C-354/01 e C-355/01, Aok Bundesverband e a., Racc. pag. I-2493, punto 46; etcetera).  

Ciò premesso, se il “Fondo Imprese Creative” è finalizzato al complessivo rafforzamento del tessuto imprenditoriale del settore culturale italiano, è semplicemente assurdo che Invitalia precluda l’accesso alla compilazione dell’istanza a migliaia di soggetti potenzialmente beneficiarie, ovvero soggetti che sono certamente “imprese creative”, ma che hanno come status giuridico di “impresa registrata” al Registro delle Imprese!

Abbiamo sottoposto la questione al dirigente di Invitalia che è formalmente “Responsabile dell’Incentivo”, Vittorio Fresa, e ci ha risposto che Invitalia non può che interpretare letteralmente quel che il Legislatore ha previsto. 

Abbiamo contestato al Responsabile dell’Incentivo che una interpretazione della norma può essere più o meno restrittiva, può consentire o meno interpretazioni estensive e elastiche e dinamiche, in funzione di colui che è chiamato ad interpretarla.

Il dato di fatto è che Invitalia non consente nemmeno di compilare la modulistica sulla piattaforma web dedicata, se il soggetto postulante non ha il numero di Registro Imprese! Interpretazione restrittiva e repressiva.

Prevalente produzione giurisprudenziale conferma che si può “fare impresa” in Italia anche senza essere iscritti alla Camera di Commercio

Esiste peraltro copiosa e finanche recente produzione giurisprudenziale (ci si limita a segnalare Tar Campania, Napoli, sez. IV, sentenza 8 novembre 2018, n. 6519; e, più vicina ancora, Tar Lecce, sentenza n. 1635 del 15 novembre 2021) che conferma, per alcuni soggetti del settore “no profit”, il non obbligo di iscrizione alla Camera di Commercio per poter partecipare a gare da parte della Pubblica Amministrazione.

Si ricorda altresì il prevalente orientamento che ammette la partecipazione alle procedure anche di soggetti che non abbiano prevalente natura imprenditoriale e che, conseguentemente, nello svolgimento della loro attività statutaria, non perseguono fini di lucro (Corte di Giustizia Ue 01/07/2008, causa C-49/07; Id., 29/11/2007, causa C-119/06; Id., 23/12/2009, causa n.305/2008; Cons. Stato, Sez. III, 15 gennaio 2016, n.116; Id, Sez. VI, 23/01/2013, n. 387; Id., Sez. V, 26/08/2010, n. 5956; Id., Sez. V, 10/09/2010, n. 6528; Id., Sez. V, 26/08/2010, n. 5956; Tar Basilicata, 23/06/2014, n. 411, Tar Milano, Sez. I, 3/11/2011 n. 2614, etcetera)…

In sostanza (oltre alla forma!), è evidente che il settore culturale si caratterizza anche per una grande varietà di soggettività giuridica, e che non può essere imbrigliato in una logica burocratica repressiva e discriminante, interpretando il concetto di “impresa” in una rigida ottica schematica e passatista.

Se la legge consente a soggetti come le “associazioni culturali” di fare “impresa creativa” anche senza essere necessariamente iscritte al Registro delle Imprese, perché Invitalia interpreta in modo così restrittivo i criteri per la partecipazione al Fondo?!

La contraddizione in termini è evidente.

Paradossalmente, il “Fondo Imprese Creative”, se realmente aperto ai soggetti del sistema culturale, potrebbe consentire ad alcuni di sviluppare ulteriore capacità imprenditoriale, e magari – in prospettiva – far maturare loro anche una prevalente funzione imprenditoriale.

Che Invitalia segua la lezione degli imminenti bandi “aperti” del Ministero della Cultura

Attendiamo di leggere i bandi imminenti che la Direzione Creatività del Ministero per la Cultura sta per pubblicare per gli altri fondi a favore delle imprese culturali e creative (115 milioni di euro): riteniamo che potrebbero determinare una sorta di operoso ravvedimento da parte di Invitalia, che, in una logica di autotutela (anche rispetto al rischio di ricorsi al Tar), potrebbe rendere meno rigida la piattaforma telematica per la compilazione delle istanze.

Si resta in fiduciosa attesa.

La vicenda è comunque certamente sintomatica della perdurante frequente insensibilità delle istituzioni italiane nei confronti delle “associazioni culturali”.

E forse questa vicenda (anche questa vicenda…) è sintomatica di un qual certo deficit di tecnicalità in alcune procedure. Richiamiamo un altro esempio, che ci sembra anch’esso calzante.

A seguito forse anche delle nostre segnalazioni (vedi “Key4biz” dell’8 giugno 2022, “Il bando Mise ‘5G Audiovisivo’, la classifica provvisoria”), lo stesso Ministero dello Sviluppo Economico, in relazione ad alcune denunciate carenze di trasparenza del bando “5G Audiovisivo” (in ballo 5 milioni di euro) ha pubblicato, una settimana fa (il 15 giugno 2022), quello che era rimasto fino ad allora un atto misterioso, ovvero la determina direttoriale di nomina della “Commissione di valutazione” (firmato in data 17 maggio 2022). Ben venga: va dato atto al Direttore Generale Francesco Soro di questa implementazione informativo-documentativa. Peraltro, leggendo chi sono i cinque esperti che il Mise ha cooptato nella Commissione (presieduta da Giovanni Gagliano), emerge naturale un quesito: nessuno di loro sembra possa vantare nel proprio curriculum professionale competenza tecnica alcuna in materia di “audiovisivo”. Curioso, soprattutto per un bando intitolato giustappunto “5G Audiovisivo”! E sulla base di quale competenza tecnica hanno quindi potuto selezionare le decine di progetti pervenuti al Mise?! Non sarebbe stato opportuno chiedere alla Direzione Cinema e Audiovisivo del Ministero della Cultura di indicare un qualche qualificato esperto di provata esperienza, dato che il bando prevede proprio – almeno sulla carta – un apprezzabile sforzo di convergenza tra “telecomunicazioni” ed “audiovisivo”, tra “reti” e “contenuti”?! In casi come questo, non sarebbe opportuno un sano “raccordo” tra Amministrazioni, superando la logica dei compartimenti stagni?!

Misteri d’Italia, ancora una volta.

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