[19.09.2025] “Huffpost Italia” cita i dati rilanciati da IsICult sulla crisi dell’occupazione nel settore cine-audiovisivo

 

Luci (spente) della ribalta. Cinema e produzione tv, non si lavora più

IsICult denuncia un crollo del 90% delle maestranze, ma per la sottosegretaria Borgonzoni i dati vanno letti “nel quadro complessivo”. Gigi Piepoli, del collettivo di lavoratori Siamo ai titoli di coda: “Fermi da due anni, costretti a fare camerieri o corrieri. Chi lavora accetta paghe imposte dall’alto”

“Ci sono colleghi fermi da due anni che oggi fanno i camerieri, i corrieri, i lavapiatti. Persone altamente specializzate che si ritrovano senza lavoro, senza ammortizzatori sociali adeguati e senza prospettive”. A parlare è Gigi Piepoli, del collettivo di lavoratori Siamo ai titoli di coda, che a HuffPost racconta il volto umano della crisi che sta travolgendo il settore cine-audiovisivo italiano. Una crisi che, sottolinea, “non riguarda solo i lavoratori, ma l’intera capacità del Paese di continuare a produrre cultura”.

Secondo il collettivo, l’origine dello stallo va ricercata nella riforma del tax credit voluta dall’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Il meccanismo, che in passato aveva reso conveniente produrre in Italia, è stato modificato con criteri più rigidi e procedure più complesse. Secondo il collettivo, il risultato è che oggi il sistema favorisce solo i grandi gruppi, spesso stranieri, capaci di anticipare capitali e gestire la burocrazia, mentre le piccole case indipendenti restano escluse e fermano i progetti. Un effetto domino che ha lasciato senza lavoro migliaia di tecnici e maestranze. “Paradossalmente, noi scioperiamo per i nostri datori di lavoro perché se le produzioni non partono, noi non abbiamo reddito”, spiega il portavoce dei lavoratori.

La denuncia si fonda sui recenti dati diffusi da IsICult e validati dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel) sulla base di fonte Inps: nel 2024 i lavoratori delle troupes audiovisive (codice contrattuale G121) sono passati dai 18.426 del 2023 a soli 1.822, un crollo del 90%. Le aziende coinvolte si sono dimezzate, da 543 a 271. Numeri che, per Angelo Zaccone Teodosi, presidente dell’istituto, “dovrebbero mettere fine ai fuochi d’artificio propagandistici del governo”.

Dal fronte opposto, però, la sottosegretaria alla Cultura Lucia Borgonzoni afferma che “il cinema italiano non è al collasso: sta cambiando pelle, affrontando nuove sfide e creando opportunità che vanno lette con serietà, non con slogan”. Parlando di “lettura parziale e fuorviante” dei dati, richiama quelli complessivi del Fondo Pensione Lavoratori dello Spettacolo: nel 2023 gli iscritti erano 367.535, scesi a 342.212 nel 2024, con una flessione del 7%. “Ben lontana – sottolinea – dal crollo evocato da alcuni”. Non solo: “nello stesso anno la retribuzione media annua è cresciuta del 3,2% e le giornate lavorate dello 0,9%”.

Il comitato degli operatori del settore non ci sta. “Il cinema non sta cambiando pelle, ci lascia le penne”, ribattono alla sottosegretaria. I lavoratori contestano il “calderone” dei dati ministeriali, che includerebbe categorie estranee al cine-audiovisivo – dagli addetti agli spettacoli viaggianti agli impiegati stabili di teatri e fondazioni liriche – e dunque non fotograferebbe la reale emergenza delle troupe.

Un nodo cruciale riguarda il contratto collettivo delle troupe, identificato dal codice G121. È lo strumento che regola l’assunzione a tempo determinato di tecnici e maestranze, indispensabile per produzioni che durano solo il tempo di un film o di una serie. Per legge, queste figure non possono essere trattate come liberi professionisti: devono essere inquadrate con quel contratto, anche se qualcuno possiede una partita Iva per spese accessorie. Per questo i lavoratori contestano la narrazione ministeriale secondo cui il calo sarebbe dovuto a una “migrazione verso altri contratti” o a un aumento del lavoro autonomo: se il G121 crolla del 90%, spiegano, significa che le produzioni hanno semplicemente smesso di assumerli. A rendere tutto più critico, il contratto non viene rinnovato dal 1999, con condizioni economiche e normative rimaste ferme a oltre vent’anni fa.

L’esponente di Siamo ai titoli di coda evidenzia: “Il nostro contratto collettivo è quello, non possiamo essere trasformati in lavoratori autonomi. Nel frattempo anche la NASpI è stata riformata e chi lavora nello spettacolo viene trattato come un disoccupato qualsiasi, convocato per corsi e colloqui che non hanno utilità. Non abbiamo un’alternativa: se non giriamo, non mangiamo”. Dietro le percentuali ci sono vite sospese. “Io stesso ho provato a cercare altro – racconta – ma le competenze acquisite sul set non sono riconosciute. Non sono qualificato per fare il commesso, anche se parlo tre lingue e ho imparato a relazionarmi con decine di persone al giorno”. Altri colleghi si sono reinventati nella ristorazione o nelle consegne, con stipendi precari e nessuna prospettiva.

E chi oggi riesce a lavorare nell’audiovisivo, tra mille difficoltà, lo fa spesso a condizioni imposte dall’alto. “C’è una lista infinita di professionisti pronti a subentrare, e questo rende i lavoratori ricattabili. Io vengo da Taranto e la situazione mi ricorda quella dell’Ilva: il datore di lavoro sa di avere il coltello dalla parte del manico e può permettersi di proporre compensi sempre più bassi, tanto qualcuno disposto ad accettare lo troverà comunque”, spiega.

Le ripercussioni non sono soltanto occupazionali. “Il risultato – aggiunge – è che oggi in Italia non c’è più spazio per le opere prime e per il cinema d’autore. Le piccole società, che rischiavano e investivano su nuovi registi, sono ferme. Se non hai alle spalle una major, spesso straniera, il tuo film non vedrà mai la luce. Restano in piedi produzioni commerciali o titoli di autori già affermati: il tessuto creativo che ha fatto grande il nostro cinema si sta dissolvendo”.

La sensazione, prosegue il tecnico, è “di sconfitta generale. Facciamo questo lavoro per amore: nessuno resisterebbe a dodici ore di set sotto il sole, la pioggia o la neve se non fosse mosso da una passione autentica. Ed è per questo che è ancora più doloroso arrivare a maledirsi per aver scelto questa strada”. Eppure, investire nel settore sarebbe una scelta anche economicamente razionale, osserva l’attivista: “È dimostrato che ogni euro investito in cinema e audiovisivo ne genera quasi quattro di ritorno per l’economia del Paese, più di settori come l’edilizia. Non capire questo significa rinunciare non solo a cultura, ma anche a ricchezza”.

Ora il collettivo chiede un incontro urgente con il Ministero della Cultura. “Vogliamo solo essere ascoltati – conclude Piepoli –. Vogliamo spiegare quali sono le ragioni che da due anni ci tolgono il sonno e che, senza un intervento mirato, si rischia di cancellare un pezzo di identità italiana”.

Adalgisa Marrocco

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