Il Partito Democratico celebra l’approvazione della Direttiva Copyright: Ascani denuncia “il governo miope”; Mogol (Siae) lamenta “contano soltanto i soldi?”. Ma nessuno ha parlato di blockchain.

Nel pomeriggio di lunedì 6 maggio 2019, presso la Sala “Berlinguer” della sede del gruppo del Partito Democratico a Montecitorio (in Via degli Uffici del Vicario), si è tenuto un incontro, coordinato dalla Vice Presidente del Partito Democratico Anna Ascani, “La nuova normativa sul copyright”.

Queste le premesse dell’incontro: “Il Parlamento Europeo, al termine di un percorso complesso, ha recentemente approvato le nuove regole in materia di copyright. Auspicabilmente, questo testo diventerà un pilastro del mercato unico digitale, che riprodurrà la stessa assenza di barriere del mercato fisico, ma con regole adeguate che proteggano i diritti di chi crea contenuti. Le nuove direttive sul copyright sono state formulate per garantire un rapporto più adeguato tra creatori di contenuti, editori e grandi aggregatori digitali. Il dibattito è stato ed è ancora molto acceso e la posizione del governo italiano si è distinta in maniera deprecabile, fino alla dichiarazione di non voler attuare la direttiva in Italia”.

Annunciati nel programma, ma assenti – senza giustificazione – Graziano Delrio (Presidente del Gruppo Pd alla Camera dei Deputati) e Patrizia Toia (Capo Delegazione del Pd al Parlamento Europeo), l’iniziativa è stata introdotta da Anna Ascani (Capogruppo del Pd in VII Commissione Camera) e da Simona Malpezzi (Vice Presidente del Gruppo Pd al Senato in VII Commissione Senato).

In verità, l’incontro è stato promosso dalla europarlamentare Silvia Costa, la quale non ha purtroppo avuto possibilità di partecipare per causa di forza maggiore. Va dato atto che Silvia Costa (già Presidente della Commissione Cultura e Istruzione del Parlamento Europeo dal 2014 al 2017) è stata senza dubbio una delle figure-chiave in Europa nella campagna” pro Direttiva (e molti degli intervenienti le hanno infatti manifestato un tributo di gratitudine).

Presenti in sala una cinquantina di persone, una “eletta schiera” di politici (in prima fila, gli ex Ministri Dario Franceschini e Valeria Fedeli, la ex Presidente della Commissione Cultura della Camera Flavia Nardelli Piccoli) e di “decision maker” (tra i quali il Commissario dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni – Agcom Francesco Posteraro, il Vice Presidente della Siae Salvo Nastasi, e Carolina Lorenzon, Direttrice delle Relazioni Istituzionali Estero Mediaset; con curiosa assenza di dirigenti Rai).

Il tono è stato un po’ curioso: autocelebrativo (“siamo qui per festeggiare l’approvazione di una buona direttiva, dopo tanta fatica…”) e polemico al contempo (“abbiamo contro il Governo, e siamo preoccupati per il recepimento…”).

Anna Ascani ha lamentato il ruolo inadeguato dell’Italia ha fatto in sede europea (“la brutta figura”, ha detto a chiare lettere): in effetti, non soltanto la maggior parte dei parlamentari del Movimento 5 Stelle e della Lega hanno votato contro l’approvazione del testo della Direttiva nella versione del “trilogo” (fra Parlamento, Commissione e Consiglio) in prima lettura il 26 marzo, ma anche in occasione della validazione da parte del Consiglio dei Ministri il 15 aprile scorso il Governo italiano ha espresso posizione contraria, in compagnia di Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Svezia, Finlandia. Il testo è stato approvato con il voto di 19 Stati a favore, il voto contrario dei 7 succitati Stati, e l’astensione di 3 Stati (Belgio, Estonia, Slovenia).

Si ricorda che la firma ufficiale è avvenuta il 17 aprile a Strasburgo, e che la Direttiva dovrà essere recepita entro due anni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, e quindi si prevede tra il maggio ed il giugno 2021.

Simona Malpezzi ha sostenuto che quella governativa è stata e resta “una scelta scellerata”. Esponenti dell’esecutivo hanno dichiarato che certamente non andranno ad accelerare il recepimento della Direttiva, ma Anna Ascani ha dichiarato che il Pd intende contrastare la prevedibile inerzia della maggioranza e vuole invece svolgere il ruolo di “sentinella vigile”. Ascani ha rimarcato come il web non debba essere considerato un “mondo a parte”, altro rispetto alla realtà fisica e materiale, una sorta di “ecosistema indipendente”, ma anch’esso deve essere sottoposto alle regole dello Stato.

È stato letto quindi un estratto di un intervento significativo di Silvia Costa: “Noi europei dobbiamo avere una grande ambizione con la direttiva sul copyright: far capire al mondo che anche gli attori dell’ecosistema digitale non possono calpestare diritti, violare la dignità delle persone, sfruttare e sottopagare il lavoro di altri, ignorare la fatica di investire in competenze e professionalità, armare campagne diffamatorie contro i rappresentanti dei cittadini quando si toccano i loro interessi commerciali miliardari”.

Il giurista Alberto Gambino, Prorettore dell’Università Europea di Roma – Uer (l’ateneo dei Legionari di Cristo), ha sostenuto che non si possono porre “Stato” e “Internet” sullo stesso livello: il web deve rispondere allo Stato (e non viceversa!), altrimenti “si sovverte il principio stesso della democrazia”. Gambinoha proposto una sorta di efficace “lectio magistralis” sullo scenario storico del diritto d’autore e sulle innovazioni della nuova Direttiva: una dotta dissertazione, dall’eccellente retorica.

Primo interveniente, Giulio Rapetti (in arte Mogol), Presidente della Siae, che ha anzitutto ringraziato i parlamentari del Partito Democratico per il sostegno alla Direttiva. Con i suoi modi simpaticamente irrituali, Mogol ha ricordato come, subito dopo essere stato eletto (cooptato) alla presidenza della Società Italiana Autori Editori (Siae), ha trascorso una notte insonne, e l’indomani ha deciso che era urgente andare a Bruxelles per perorare la causa. Senza aver fissato appuntamenti, si è recato quindi a Bruxelles con il Direttore Generale Gaetano Blandini, ipotizzando finanche di fare gli uomini-sandwich di fronte alla sede del Parlamento Europeo, per manifestare. È stato presto accolto con cortesia dal Presidente del Parlamento Antonio Tajani, ma ha incontrato per prima proprio la delegazione del Partito Democratico (peraltro “tutte donne”, ha sorriso, “e qualcosa vorrà significare”, ha aggiunto). Con franchezza, Mogol ha riproposto la domanda: “ma come è possibile che alcuni parlamentari non capiscano una cosa così semplice?! Non può esistere una cultura che sia ‘gratuita’, se questa gratuità determina la morte di chi la cultura la crea, produce, distribuisce… Insomma, è un concetto semplice ed elementare… Possibile che contino i soldi soltanto, ovvero il potere di queste potenti lobby del digitale?!”.

Sono poi intervenuti Vincenzo Aprile di Fimi – Federazione Industria Musicale Italiana, Livio Damiani consulente del Mibac, Fabio del Giudice Direttore Generale di Confindustria Cultura, l’avvocato Luca Fatello Consigliere della Cooperativa Artisti7607, Andrea Miccichè Presidente del Nuovo Imaie, Elisabetta Ramat della Cgil-Slc (Sindacato Lavoratori della Comunicazione), Rossella Caffo del Mibac, Piero Attanasio dell’Aie – Associazione Italiana Editori (si è fatto vanto di essere titolare di una struttura “Ricerca e sviluppo” unica nel panorama delle associazioni delle imprese culturali italiane), e – “last but not least” – Fabrizio Carotti, Direttore Generale della Federazione Italiana Editori Giornali – Fieg.

Hanno suscitato in noi un discreto interesse, in particolare, due interventi, quello di Miccichè (Nuovo Imaie) e quello di Carotti (Fieg). Il primo ha segnalato che tra approvazione a livello europeo e concreta applicazione della nuova norma a livello italiano ovvero tra “il dire ed il fare” ci sia un… mare, ricordando come siano trascorsi quasi 20 anni dalla data di approvazione a livello europeo (1975) della norma in materia di equo compenso – ovvero il contributo per la “copia privata” – alla data di recepimento in Italia (1992), ed ha quindi invitato tutti a non deporre le armi, nei confronti chi pensa di giocare inerzialmente (ovvero il Governo, nella sua attuale maggioranza “anti-Direttiva”)… Il secondo ha invitato a destrutturare la retorica del web libero e bello, ed ha ricordato l’“incredibile” – a parer suo – comportamento di Wikipedia, che ha paradossalmente auto-oscurato le proprie pagine, nei giorni antecedenti alla votazione europea, pur avendo la piattaforma piena coscienza che la Direttiva non avrebbe avuto alcuna conseguenza sull’enciclopedia online…

Ha concluso Anna Ascani: “il Governo italiano ha detto di non voler attuare questa importante Direttiva, oggi tutti gli operatori ci hanno chiesto di lavorare per avviare rapidamente l’esame parlamentare e impegnarci in questa vera e propria battaglia di libertà, di civiltà e di responsabilità… è in gioco la libertà e la diversità culturale, il valore del lavoro intellettuale e creativo, il pluralismo delle testate, il giornalismo di qualità, ma anche la sostenibilità della industria culturale e giornalistica europea, la ricerca e l’investimento in nuovi autori, milioni di posti di lavoro per artisti e professionisti della musica, del cinema, dell’audiovisivo e dell’editoria, la sopravvivenza stessa del giornalismo libero e di approfondimento”.

Nessuna voce dissonante, come prevedibile, e d’altronde si è trattato senza dubbio di una kermesse di partito, inevitabilmente – nel caso in ispecie – un po’… “monodimensionale”.

Sull’avverso fronte, si segnala che nel programma del Movimento 5 Stelle per le elezioni europee del 26 maggio 2019, si legge inequivocabilmente: “ben 5 milioni di cittadini hanno firmato una petizione per modificare in meglio la direttiva copyright e salvare dunque il web libero. Le Istituzioni europee hanno fatto finta di niente e hanno approvato sia in sede di Consiglio, sia al Parlamento europeo, un testo sbagliato, che danneggia i piccoli editori e le startup”. In argomento, il Sottosegretario all’Editoria Vito Crimi (M5S) ha sostenuto: “a pagare il costo della riforma sarà l’editoria locale”. Si legge sul sito web europeo del M5S: “Copyright. Approvata la direttiva bavaglio”. Il post si conclude con uno sconsolante “oggi è un brutto giorno per chi ha a cuore la libertà di espressione e il cambiamento impresso dal web”.

In verità il dibattito su queste tematiche – almeno in Italia – è stato assai modesto, almeno a livello “fact-checking”: la demagogia ha prevalso sui fatti, e non ci risulta ci sia stata una occasione una di pubblico confronto dialettico – basato su studi, analisi, ricerche – tra le due contrapposte fazioni.

Chi redige queste noterelle ha una posizione netta, già espressa anche su queste colonne (vedi “Key4biz” del 26 marzo 2019, “Copyright, Davide vince contro Golia. Tajani: ‘Finalmente regole per web’”): la Direttiva è uno strumento che introduce (cerca di introdurre) un qualche strumento di correzione rispetto ad una deriva provocata dalla retorica del digitale miracolistico, ovvero dalla grande illusione che il web possa determinare automaticamente una cultura diffusa, libera e democratica, senza che si correggano le asimmetrie che si sono venute a determinare nell’arco di pochi anni, ovvero lo strapotere degli “over-the-top” e dei “social network”, che ha prodotto e produce enorme nocumento all’industria culturale e creativa. A fronte della “grande illusione”, si registra un progressivo processo di depauperizzazione dei lavoratori creativi, artisti ed intellettuali, conseguenza inevitabile dell’indebolimento strutturale delle imprese del settore, a tutto vantaggio dei giganti del web. Giganti che – come ha (ben) detto Alberto Gambino – hanno “la forza di uno Stato” (sovranazionale) ed al contempo “la spregiudicatezza di un individuo” (lestofante).

Uno dei problemi essenziali è la necessità di sanare gli effetti distorsivi, ovvero il divario di valore (“value gap”) rappresentato dalla differenza tra il valore economico prodotto da un contenuto coperto da copyright e l’effettiva remunerazione riconosciuta ai titolari dei diritti. È evidente che soggetti come Facebook hanno costruito una economia parassitaria che deve essere corretta, perché danneggia artisti, creativi, autori, giornalisti… Non è in discussione “la libertà” della cultura (è evidente che il web ha moltiplicato le chance di diffusione delle opere dell’ingegno), ma va ribadito che l’economia digitale richiede l’intervento della “mano pubblica” affinché vengano corrette le asimmetrie (crescenti).

Un dato per tutti: nell’anno 2017, servizi con licenza – a pagamento o meno – come Spotify e Deezer hanno restituito, tramite equi accordi di licenza, quasi 6 miliardi di dollari ai titolari di diritti; al confronto, soggetti come Youtube e SoundCloud hanno generato meno di 1 miliardo di dollari… I primi hanno però soltanto 300 milioni di utenti, mentre i secondi oltre 1 miliardo…

Questi numeri sono inequivocabili, e – come direbbe Mogol – “come è possibile che alcuni parlamentari non capiscano?!”.

Se è vero che forse era naturale attendersi una sorta di “allineamento” ideologico dei partecipanti all’iniziativa promossa dal Pd, quel che ha prodotto in noi un grande sconcerto è stato osservare che, nella decina di interventi che si sono susseguiti nell’arco di quasi tre ore, nessuno (si ribadisce: n-e-s-s-u-n-o) abbia fatto cenno alla rivoluzione imminente che verrà verosimilmente determinata dalla “blockchain”, che è certamente una nuova tecnologia (che si caratterizza per inviolabilità e decentralizzazione) ma non soltanto ciò: è anche un nuovo paradigma, destinato a scardinare molte delle teorie e pratiche del sistema economico cui siamo ancora abituati.

Si tratta di un cambiamento radicale di paradigma, che peraltro mette in discussione anche il ruolo delle “collecting society”, alcune delle quali si stanno attrezzando – come Siae e Soundreef – anche rispetto alla “blockchain”.  

C’è chi sostiene che l’architettura della “blockchain” rappresenterà per il business quello che internet è (stato) per l’informazione.

L’architettura della “blockchain” è complicata, ma sostanzialmente determina l’eliminazione di ogni intermediazione nei rapporti commerciali.

La “blockchain” ha la potenzialità di mettere in contatto diretto i produttori con i consumatori, in una transazione di valore sicura e non alterabile.

Con il termine “blockchain”, si intende in sostanza un registro decentralizzato non gestito da un’istituzione, ma affidato a protocolli informatici e tecniche matematiche di crittografia per il suo aggiornamento e la sua manutenzione.

La sicurezza della tecnologia “blockchain” è garantita – almeno sulla carta – al 100 % ed è destinata a divenire – secondo alcuni analisti – il modo più semplice, economico e sicuro per garantire la “validazione temporale” di un “oggetto digitale”.

La “blockchain” è di fatto un enorme database di transazioni, nel quale ogni nuovo accordo viene aggiunto alla “catena”, registrato e protetto con una equazione matematica.

Il database viene distribuito e quindi condiviso su una vastissima rete di computer – i cosiddetti “nodi” – così da rendere virtualmente impossibile per un agente esterno ogni modifica dei dati registrati. Questi nodi usano la loro potenza di calcolo per intercettare, verificare e decodificare l’ultima transazione, che viene aggiunta come un blocco alla catena. Questa proprietà di costruire un archivio pubblico verificabile e non modificabile è la ragione per la quale questa architettura ha catalizzato l’attenzione degli operatori economici (e non soltanto)…

Insomma, le potenzialità “disruptive” della “blockchain” sono enormi, almeno sulla carta, ma non è detto che la “disintermediazione” sia in sé una dinamica automaticamente benefica per il sistema sociale.

L’autore di questo articolo teme che si debba comunque affrontare seriamente anche il rischio di una nuova “grande illusione”, perché la matematica e l’informatica non sono esattamente scienze neutre, e naturale sorge il quesito: chi “controlla” la “blockchain” ovvero garantisce la purezza, la neutralità e la indipendenza di questa tecnologia? chi ne governa uno sviluppo equilibrato, trasparente e democratico, ed alieno da distorsioni e manipolazioni?!

Tempus fugit… Ci limitiamo a segnalare che il 19 febbraio scorso è stata presentata a Milano la prima società italiana che intende tutelare il diritto d’autore attraverso giustappunto la tecnologia “blockchain”: si tratta della CreativitySafe fondata da Marcello Esposito.

Come è possibile affrontare la tematica del diritto d’autore nell’era del web, ignorando completamente la “blockchain”??? Sia consentito osservare che questo ritardo di analisi e di previsione è grave ed imperdonabile, sintomatico della perdurante lentezza con cui in Partito Democratico sta seguendo queste tematiche del digitale, pur strategiche per lo sviluppo socio-economico dei prossimi anni.

Insomma – sia consentita la metafora scherzosa –, sarà anche importante continuare a studiare la forma degli specchietti retrovisori, ma tra poco avremo automobili che saranno in grado di guidare da sole ovvero vetture senzienti, e gli specchietti saranno graziosamente sostituiti da radar…

Clicca qui, per leggere il documento “La nuova direttiva copyright. Scheda tecnica di contenuto), distribuito in occasione dell’incontro “La nuova normativa sul copyright”, tenutosi a Montecitorio lunedì 6 maggio 2019, promosso dal Partito Democratico.

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